Il campismo, la partigianeria al servizio di una degli imperialismi dominanti, ha radici lontane.
È il lascito testamentario di quello che fu lo stalinismo, il suo “crimine” più grande.
Campista fu l’ultima guerra mondiale.
Guerra di briganti imperialisti spacciata per guerra dei “popoli liberi” contro i “popoli oppressori”.
Guerra di nazioni per la spartizione del mondo, contrabbandata per guerra della “libertà” contro la “tirannide”.
La democrazia, con le truppe di complemento del “socialismo reale”, contro il fascismo.
Le due facce della stessa odiosa dittatura del capitale che, nell’uno e nell’altro campo, condannavano i proletari al ruolo di merce da sfruttare e li mandavano al macello per gli interessi delle classi dominanti.
La prima guerra mondiale aveva fatto fare un passo da gigante nella coscienza del proletariato internazionale, una consapevolezza che aveva portato alla Rivoluzione d’Ottobre, all’Internazionale, alla nascita dei partiti comunisti.
Trasformare la guerra in rivoluzione, “fare come in Russia”, erano le parole d’ordine sulle quali si mobilitavano gli operai e le masse oppresse di tutto il mondo.
La brusca frenata del processo che avrebbe dovuto portare la rivoluzione dentro le nazioni capitalistiche avanzate, nelle cittadelle del capitale, il fallimento della rivoluzione europea, ebbe un effetto esiziale per la giovane Repubblica dei Soviet.
La “costruzione del socialismo”, in un’ottica nazionale ne segnò il destino cambiandone natura e ruolo.
Nell’immenso paese arretrato costruire le basi materiali del socialismo significava solo una cosa, costruire il “capitalismo” di Stato con la sua “classe dirigente” che assunse bel presto tutti i caratteri di una “nuova borghesia”.
Quando scoppiò la Seconda guerra mondiale la Russia non era più quella di 20 anni prima.
Il punto più alto raggiunto dalla rivoluzione internazionale del proletariato organizzato.
Era uno Stato nazionale che contendeva agli altri Stati il suo diritto a autodeterminarsi.
E nello scontro fra imperialismi si inserì, non da soggetto rivoluzionario, ma da nazione in lotta con le altre nazioni senza nessun progetto che non fosse quello della sopravvivenza e della difesa dell’entità nazionale dello stato sovietico.
Dello “Stato comunista”, questa aberrazione teorica e pratica che rappresentò la controrivoluzione nel cuore stesso della rivoluzione.
L’assoluto pragmatismo dei comportamenti della direzione politica stalinista, senza nessun principio ispiratore che non fosse il nazionalismo grande-russo, la difesa della patria “socialista”, l’unità contro il nemico esterno di tutto il popolo, comprese le sue componenti più reazionarie e la stessa chiesa ortodossa, non fu che il sintomo che, ormai, gli ottusi burocrati del Cremlino con le prospettive storiche aperte dalla Rivoluzione sovietica non avevano più nulla a che spartire.
Per il primo anno di guerra, la Russia di Stalin fu alleata della Germania nazista.
La classica posizione campista di chi appoggia l’imperialismo emergente contro l’imperialismo in declino.
Fu una alleanza determinante, garantendo la non belligeranza a est che permise la conquista Tedesca della Francia.
La Russia si spartì con la Germania la Polonia, inaugurando l’epoca dell’esportazione dei regimi sociali con i carri armati e le baionette.
E solo dopo il capovolgimento di fronte, voluto da Hitler, si alleò con il fronte angloamericano.
La Russia portò a quel fronte una massa imponente di uomini e di donne e un valore aggiunto di enorme importanza.
Il sostegno dei comunisti, degli operai coscienti e organizzati a quella guerra.
L’orologio della storia torno indietro a prima della presa del Palazzo d’Inverno.
I proletari ritornarono a farsi ammazzare, anzi a morire contenti e orgogliosi del loro ruolo perché era la loro guerra.
E chi negli anni ormai lontani del Primo conflitto mondiale aveva lavorato per svuotare le trincee, aveva dichiarato “guerra alla guerra”, i pochi comunisti sopravvissuti alle purghe, ai processi farsa, e ai massacri dei rosso-bruni ante litteram, furono accusati di essere traditori del loro paese, agenti del nemico, spie e sabotatori.
Tutto ciò che si era imparato nel breve periodo rivoluzionario fu dimenticato.
La guerra ritorno a essere guerra “religiosa”, guerra di “principi”.
Gli operai tornarono a difendere la patria dall’aggressore, a fare la “resistenza”, a combattere il nemico che veniva da oltre i confini.
Combattere il nemico interno, il proprio padrone, abbattere il proprio Stato, era tradimento, infamia.
Il risultato fu che, se dopo la Grande Guerra il fantasma del comunismo aveva ripreso a terrorizzare le borghesie al potere, dopo la Seconda guerra mondiale si trasformò in un innocuo Casper, buono solo a spaventare le vecchiette e i parroci di campagna.
La storia ha l’indubbia capacità di fare chiarezza, di denudare i re, di dissolvere la fuliggine ideologica che acceca la vista.
Le democrazie vincitrici si sono rivelate emule dei peggiori fascismi, e del socialismo nazionale costruito “in un solo paese” non è rimasto nemmeno il più pallido ricordo.
Lo stalinismo ha prodotto Putin e Xi Jinping.
E la vittoria dei popoli “liberi” ha creato le condizioni per guerre sempre più distruttive e ideologie sempre più aberranti.
Bisogna riprendere il percorso interrotto quando era un principio irrinunciabile e identitario l’unità dei proletari di tutti i paesi del mondo.
E la guerra lo strumento delle borghesie in crisi per dividerli e costringerli a massacrarsi fra di loro.
Bisogna farlo e in fretta.
Bisogna ripeterlo ogni giorno fin quando diventerà un luogo comune.
Le guerre le fanno gli Stati per asservire e pervertire la coscienza dei loro sudditi.
Il nazionalismo è morte.
Disertare le guerre delle nazioni è il primo piccolo passo verso la liberazione dallo sfruttamento e dall’oppressione.
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