Da una settimana siamo entrati nel Kurdistan turco. Prima Urfa (piena di profughi siriani), poi Amed (Diyarbakır), in seguito il lago di Van, già cuore dell’Armenia, prima del genocidio del 1915/16, ed ora del Kurdistan turco. La notizia dell’attacco israeliano all’Iran ci ha colti, stamattina, nella città di Van, a 60 km in linea d’aria dal confine iraniano. Ieri pomeriggio, mentre visitavamo l’isoletta di Akdamar*, avevamo avuto la sgradita sorpresa di essere sorvolati a volo radente da 4 caccia dell’aviazione turca, provenienti da est (dove c’è l’Iran), senza peraltro collegare la presenza degli orribili strumenti di morte a ciò che sarebbe accaduto il giorno dopo. Oggi, cercando di commentare con i nostri interlocutori curdi (il cuoco del chioschetto, il guardiano del campeggio, il meccanico o il benzinaio) l’aggressione israeliana, ci siamo stupiti dell’indifferenza e della tranquillità della gente, che, apparentemente, non si rende conto di stare seduta sul cratere di un vulcano. Uno ci ha addirittura risposto con un apprezzamento per Netanyahu, aggiungendo, con gesti e parole in kurmanji, che si augurava che gli israeliani radessero al suolo l’Iran, aggiungendo parole di chiaro disprezzo verso i mollah (unica parola per noi comprensibile). Avevamo già avuto l’impressione che i nostri interlocutori (tutti apertamente sostenitori della causa curda, felici delle poche parole che conoscevamo nella loro lingua) non avessero particolare simpatia per la causa palestinese(spesso identificata con Hamas, che non gode certo di simpatia qui) e non considerassero il regime sionista alla nostra stessa stregua. Oltre a una chiara opposizione al regime turco (senza arrivare, se non in rari casi, a prendersela coi turchi in genere) ci è sembrato di notare una certa ostilità antiaraba, con Saddam Hussein come oggetto di odio viscerale (e pour cause!). Qualcuno ci ha detto che quando è stato impiccato “i curdi hanno festeggiato”. Credo inoltre che il verbale, sbandierato appoggio di Erdogan alla “causa palestinese” renda comprensibile (certo non giustificabile!) questo atteggiamento “campista”, speculare a quello dei campisti nostrani. Indubbiamente non è visibile nessuna manifestazione pro Palestina: né bandiere, né scritte sui muri (eccetto una, a Diyarbakır, in turco), né tantomeno mobilitazioni di massa visibili. È vero che neppure le scritte pro Kurdistan sono visibili (eccetto in alcuni quartieri di Diyarbakır). Ovvio che non è possibile trarre conclusioni politiche, né abbandonarsi a frettolose analisi sociologiche da contatti così limitati e superficiali, però resta l’impressione di scarsa empatia con le lotte di liberazione di popoli diverso dal curdo, in particolare se collegate al mondo arabo, nonostante la comune cultura religiosa. E l’amara constatazione, per certi versi scontata, di quanto sia molto più facile, a livello di massa (e purtroppo, spesso, non solo a questo livello) essere nazionalisti e “campisti” (o “altercampisti”) che internazionalisti conseguenti, al di là delle corrette, doverose dichiarazioni di solidarietà con i palestinesi emesse dai gruppi dirigenti del Rojava o del Bakur.

B. R. R. B.


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