Ricorderete le spaccate in centro contro due ristoranti palestinesi di un mese fa? E la conseguente mobilitazione antifascista ed antisionista, a cui avevamo convintamente partecipato? Ci sono novità che, forse, derubricano le spaccate ad un semplice gesto di delinquenza comune. L’altra notte è stato arrestato un trentenne immigrato poco dopo aver tentato di sfondare la porta del ristorante l’Oste Sobrio. Indossava una felpa blu, come l’aspirante scassinatore di vari ristoranti del centro, colpiti negli ultimi mesi (tra cui, a quanto pare, anche i due palestinesi). Sembra che il giovane abbia problemi psichiatrici. Di sicuro non è certo un “professionista”, viste le modalità dei tentativi di scasso, compresa l’imprudenza di indossare la stessa “divisa”, una felpa blu. Il caso ricorda un po’ quello dei due pakistani ubriachi che avevano disegnato svastiche in centro, pochi mesi fa. Difficile dire se, nel caso dei due, ci fosse una motivazione politica: non è impossibile vista le tendenze di destra (e di estrema destra) presenti nell’immigrazione pakistana, indiana (vedi i sikh pro Salvi alle elezioni comunali), est-europea, maghrebina, ecc. Più difficile vederla nel trentenne con problemi psichiatrici, ma non è da escludere del tutto. Al di là delle implicazioni politiche, sostanziali, fragili o irrilevanti che siano, possiamo solo constatare una “verità” lapalissiana: i migranti non sono umanamente e politicamente né peggio né meglio degli “autoctoni”. Essere antirazzisti non vuol dire dare una “patente di sinistra” (peraltro non richiesta) ai lavoratori migranti (soprattutto quando sono bottegai o sottoproletari, ma non solo, purtroppo). Vuol dire semplicemente che, appunto, sono uguali agli “autoctoni”. Anche il fatto che i lavoratori immigrati siano spesso la parte più sfruttata e oppressa del proletariato, nel nostro come negli altri paesi, non costituisce tout court una “garanzia” di coscienza di classe, di orientamento politico “corretto”, ecc. L’obbligo politico (e morale) di difendere le loro condizioni, di lottare contro il razzismo di cui sono spesso vittime, non può diventare una specie di automatismo: immigrato=proletario=compagno (o fratello, come amano dire alcuni settori della sinistra). Anzi, spesso, per motivi socio-culturali, è proprio il contrario (come risulta chiarissimo per chi frequenti l’immigrazione est-europea). Il che non cambia di un millesimo la necessità di solidarizzare e di tentare di unire i proletari al di là delle differenze di lingua, di cultura, di religione, ecc. Basta aver chiaro che non ci sono scorciatoie pietistico-caritatevoli. C’è solo il duro, lungo lavoro della lotta di classe, della formazione della coscienza.
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