Domani mi cercherò una piazzetta di periferia con una panchina all’ombra.

La sciarpa rossa per ricordarmi chi sono e tra le mani questo meraviglioso strumento di comunicazione che l’intelligenza e il lavoro della braccia proletarie ha prodotto.

Cercherò di intercettare le immagini di altri posti nel mondo dove il Primo maggio non è stato svilito, espropriato, svuotato dei suoi contenuti classisti e eversivi, trasformato in una oscena parodia.

La festa degli schiavi che dimenticano per un giorno di esserlo, la piccola dose di oppio annuale concessa dai padroni generosi.

Quella giornata è nata per abolirli i padroni, per cancellarli dalla faccia della terra.

È la giornata della lotta internazionale contro il lavoro salariato, contro lo sfruttamento del lavoro salariato.

La giornata della conquista dello 8 ore.

La giornata del “lavorare meno lavorare tutti”.

Altro che festa del lavoro sponsorizzata dai magnaccia che sul lavoro della classe operaia ci campano alla grande e festeggiano tutto l’anno.

Una sciarpa rossa e una panchina.

A Magonza, un tempo terra di negrieri che hanno creato le loro fortune e quelle dei loro figli e nipoti sullo sfruttamento dei “carusi”, gli schiavi bambini a cui succhiavano il sangue e la vita, non c’è altro modo per sentirsi dalla stessa parte di quei milioni di proletari che domani scenderanno in strada per combattere la comune lotta di classe.

A Babbaurra, il villaggio dove gli zolfatai di ieri furono esiliati perché “puzzavano” e attentavano al “decoro” del salotto buono della città, dopo la “santa messa”, “giochi, musica, balli di gruppo e comicità”.

La sera al viale che ci ricorda la regina che diede nome alla pizza più famosa del mondo, per la gioia dei residenti, “Festival del Lavoro”.

Tutto organizzato dal sindaco in maglietta nera che ora è pure presidente dell’ex provincia che non si sa bene a cosa serva.

Il sindacato ha optato per l’annuale gita fuori porta.

A Portella. Sulla spianata dove 78 anni fa, in un altro primo maggio, i contadini siciliani che rivendicavano la terra venivano falcidiati dalla banda di Giuliano.

Da un po’ di anni a questa parte l’unico rischio che si corre da quelle parti è un’acquazzone estivo o una indigestione di cannoli (fra i più buoni della Sicilia) o, per chi è di stomaco debole, la passerella indigesta di tromboni sfiatati, figli naturali di quelli che quei contadini li hanno fatti scappare dalle loro case e mandati a lavorare nelle miniere e nelle fabbriche di mezzo mondo.

Ci sarà la compagnieria siciliana. Il selfie accanto al masso di Barbato non può mancare sulle propria pagina social.

Pugno chiuso e fazzoletto rosso al collo.

Io avrei tanta voglia di presentarmi alle vostre feste con le foto dei nostri figli e dei nostri nipoti che avete costretto a emigrare, a cercarsi un lavoro lontano da casa.

Ogni nonno, ogni zio, ogni genitore, con la foto di un ragazzo e di una ragazza.

Insieme, spalla a spalla a chi ha trovato casa qui, nei tuguri di questa città, i nuovi schiavi che riconoscete come “indecorosi” dal colore della loro pelle.

Con la foto di Adnan Siddique immigrato pakistano ammazzato dalla mafia dei “caporali” nemmeno 5 anni fa.

Insieme alle “mamme” di questa città che chiedono acqua.

Con tanti bidoni come tamburi per fare sentire la “nostra” musica.

I vecchi sognano.

A loro basta una sciarpa rossa e una panchina.

E le loro gambe sono troppo deboli per sostenere i loro sogni.

Sono “fuori dalla storia” e forse un po’ fuori di testa.

Il secolo dei conflitti si è chiuso.

Ora c’è la democrazia e la coesistenza coi propri padroni e coi ruffiani che li rappresentano.

Buon PRIMO MAGGIO a chi ancora può lottare.

A chi non ha nulla da perdere se non le catene.

A chi divide il mondo fra chi lavora e chi sfrutta il lavoro altrui.

A chi è “divisivo”, butta giù i ponti e costruisce barricate, e sente e sa di essere classe a parte.

La classe di chi “suda e lavora”.

La classe dei proletari.

PROLETARI DI TUTTI I PAESI UNITEVI!

Oggi scenda in piazza chi sente il bisogno di mettere alla testa del proprio corteo una mamma palestinese con la foto del suo bambino morto e una mamma israeliana con la foto di suo figlio, anch’esso morto.

Strettamente abbracciate.

E un disertore russo accanto a un disertore ucraino.

Un operaio di Kiev e uno del Donbass.

A marciare spalla a spalla con le braccia incrociate a testimoniare l’impegno che mai ritorneranno a spararsi.

E semmai quelle armi dovessero usarle le useranno contro i loro generali.

E insieme a loro le mogli, i figli e i nipoti di chi è morto in fabbrica e le bare di quelli morti il giorno della “festa”.

A ricordare che è la stessa guerra quella che si combatte nelle officine e quella che si combatte nelle trincee.

Ed è la stessa merce umana a morire.

E gli invalidi della guerra del capitale, chi ha perso un dito o una mano, il braccio o una gamba.

Chi è impazzito e chi si è suicidato per abbreviare la sua pena.

Dietro una delegazione nutrita di bambine e di bambini nati lontano dai loro nonni, dalla loro casa, che i racconti dei loro padri non li fa dormire per la paura.

Il relitto di un barcone col suo carico di dolore e di speranza.

Un giovane ragazzo dalla pelle colorata evaso da un lager dove era destinato a morire.

E i tanti che dalla guerra dalla fame dai parassiti che ne succhiavano la vita sono scappati.

Ben nascosto tra la folla clandestino per necessità e non per scelta chi è evaso dal 41 bis e dalle galere costruite per

E i licenziati, i cassintegrati, i rottamati,


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