di Franco Turigliatto

Per un giudizio sull’Unione Europea, sulla sua natura capitalista, sulla storia e sulle dinamiche del progetto di unificazione dei paesi del continente dal secondo dopoguerra ad oggi riprendiamo un testo scritto alla vigilia delle ultime elezioni europee nella primavera del 2024.

L’Unione Europea arriva alle elezioni del giugno 2024 in un contesto internazionale segnato dalla presenza di plurime crisi, in primis la minacciosa accelerazione della crisi ambientale e l’accresciuto scontro interimperialista tra le grandi potenze che ha innestato una corsa generalizzata al riarmo e alla guerra, con il moltiplicarsi dei conflitti militari: in particolare la guerra in Ucraina prodotta dall’invasione del regime neozarista di Putin del 2022 e l’azione coloniale, distruttiva e genocidaria del governo reazionario di Israele, sostenuto da tutte le potenze occidentali, contro il popolo palestinese. 

Il capitalismo europeo, anzi i capitalisti europei sono chiamati a una nuova, dopo quelle che si sono prodotte in passato, ridefinizione (ristrutturazione) del loro progetto e del loro ruolo davanti  a un  quadro internazionale che, sia sul piano economico, che su quello politico e geopolitico, segna un suo forte indebolimento, ben descritto dalla critica sferzante di uno dei suoi principali alfieri, Mario Draghi. 

Ma anche le classi lavoratrici del continente e le sinistre anticapitaliste di alternativa sono chiamate a ridefinire il loro ruolo e i loro progetti per impedire che le classi dominanti e l’infernale logica del profitto e della guerra, trascinino il mondo intero in una catastrofe distruttiva. 

La possibile crisi del connubio politico socialdemocratici (socialiberisti) e popolari

Ma c’è un ulteriore elemento di crisi: finora le strutture istituzionali dell’UE sono state gestite dal connubio politico tra socialdemocratici (molto moderati e filo capitalisti), i partiti della destra storica tradizionale e quelli liberali, a cui faceva riscontro, sul terreno nazionale la concorrenza e l’alternanza governativa tra di loro presentato come il mondo migliore possibile e modello di democrazia che evitava ogni forma di estremismo e garantiva una buona gestione del sistema capitalista. Solo che dopo 30 anni di politiche liberiste di austerità, dopo la sconfitta del movimento dei lavoratori e delle forze della sinistra antagonista, la storia presenta il suo conto: quelle politiche hanno invece creato le condizioni per un forte sviluppo delle forze delle estrema destra, scioviniste, reazionarie nazionaliste ed anche fascisteggianti, che in alcuni paesi sono giunte al governo, come in Italia e che i sondaggi danno in ascesa in tutto il continente, tanto da poter avere un ruolo determinante della gestione politica dell’Unione Europea. Imprevedibile che cosa possa prodursi da una gestione dell’UE di forze che da una parte hanno orientamenti nazionalisti e che nello stesso tempo possono disporre degli strumenti comunitari, tanto più ben conoscendo che ci sono importanti settori della borghesia che hanno scelto questi partiti per garantirsi sfruttamento e dominio.

Un passo indietro 

Il superamento in Europa degli stati nazionali, piccoli o grandi, è da tempo una necessità storica. Da più di un secolo i loro limiti geografici ed economici non corrispondono più allo sviluppo delle forze produttive e dell’economia mondiale. Le grandi borghesie europee hanno cercato di superare questi limiti passando, per due volte nel novecento, dalla dura concorrenza economica, alla guerra aperta per distruggere l’avversario e dominare sul continente: decine di milioni di morti e le classi lavoratrici trasformate in carne da macello per la vittoria del proprio capitalismo.  Poi la svolta dopo la sconfitta del nazismo: un accordo e un equilibrio tra le due maggiori potenze Francia e Germania e la formazione della CEE e poi della Comunità europea. 

L’Unione europea è stata fin dall’inizio un disegno delle borghesie per garantire la libera circolazione delle merci e del capitale, cioè la realizzazione dei profitti e delle rendite finanziarie, non certo i diritti dei lavoratori. E’ avvenuta senza un reale governo comune, mantenendo la concorrenza tra i diversi capitali europei, rifiutando interventi di politica economica che favorissero il riequilibrio economico e sociale tra paesi con diverso grado di sviluppo e senza una responsabilità collettiva degli stati: così i più forti sono diventati più forti ancora a scapito dei paesi più deboli.

L’evoluzione della comunità europea poi divenuta Unione Europea ha attraversato diversi stadi; per tutta una fase ha potuto avvantaggiarsi di un quadro economico espansivo (l’età dell’oro) e del prevalere delle politiche di sviluppo keynesiane con un’accresciuta forza del movimento dei lavoratori che ha permesso loro significative conquiste salariali e normative conquiste e lo sviluppo del welfare. Ma, con la fine di quel periodo storico e la crisi dei keynesianesimo, è partito un duro attacco alla classe lavoratrice che ha determinato le pesanti sconfitte dei lavoratori in Inghilterra e Italia; subito dopo è cominciata la svolta liberista che si è espressa prima nel piano Delors per l’Europa e poi si è approfondita con il trattato di Maastricht, le privatizzazioni, la flessibilità e precarietà del lavoro, l’attacco al welfare.   

Le politiche liberiste hanno abolito i pur deboli strumenti che favorivano la convergenza; governi e media hanno spiegato che la totale concorrenza e l’introduzione della moneta unica avrebbero permesso l’equilibrio tra le diverse economie. Niente di più falso: se per una brevissima fase l’euro ha permesso uno sviluppo parziale e caotico di alcune economie del sud, drogate dai prestiti delle banche tedesche e francesi, molto presto la logica del mercato e le imposizioni della Troika hanno moltiplicato le divaricazioni a vantaggio dei paesi più forti e segnatamente la Germania.

L’Euro per poter funzionare in modo più equilibrato avrebbe dovuto essere accompagnato da una gestione collettiva dei processi economici, sostenuto da una fiscalità comune che permettesse di gestire forti investimenti verso i paesi più deboli per l’omogeneizzazione economica, da piani sociali per ridurre le diseguaglianze, dall’equiparazione verso l’alto di welfare e salari, dalla distribuzione in modo equo degli aumenti di produttività. Queste scelte sono state invece negate. L’esplodere della crisi economica nel 2007-2088 ha moltiplicato per mille tutte le contraddizioni e spinto il padronato europeo a un’offensiva a tutto campo contro i diritti dei lavoratori e le classi popolari: disoccupazione di massa, corsa al ribasso senza fine dei salari e tagli radicali del welfare per reggere la concorrenza con gli altri capitalisti sul mercato mondiale. In conclusione l’UE ha cercato di agire come una specie di protostato, svolgendo alcune sue funzioni economiche e politiche e di certo confermando che agiva in funzione degli interessi della grande borghesia ma per l’appunto non è mai riuscita passare a una entità statale reale sotto una forma federale, capace di una politica estera coerente, tutti elementi che avrebbero potuto essere portati fino in fondo se ci fosse stata una strutturale unificazione delle maggiori forze economiche capitalistiche su scala del continente. Nel quadro della mondializzazione capitalistica la concentrazione  delle multinazionali ha assunto forme assai più articolate. 

La crisi sanitaria e il PNNR

La pandemia del covid  e la grande crisi sanitaria globale ha costretto e spinto, per una certa fase e parzialmente, le borghesie europee ad operare alcune correzioni di rotta di politica economica al fine di contenere l’impatto della tragedia. Il Patto di Stabilità europeo con le sue ferree leggi liberiste è stato congelato, l’intervento pubblico è tornato prepotentemente sulla scena, le politiche dell’austerità contenute, qualche scelta di programmazione si è affacciata ed anche è stato introdotto una forma di debito europeo.

Ma questa dinamica positiva si è presto interrotta, l’occasione per un cambio radicale dei parametri su cui si costruiva l’UE non è stata utilizzata neanche dalle forze variamente socialdemocratiche e la spinta al ritorno delle vecchie norme liberiste si è riaffermato rapidamente, tanto è vero che il congelamento del Patto di stabilità si è concluso alla fine del 2023 ed è stata predisposta una nuova versione del Patto, per molti versi ancora più liberista e costringente per i singoli paesi.

Nello stesso tempo il PNRR, concepito e finalizzato come grande rilancio dell’economia capitalista del continente attraverso profonde ristrutturazioni per la valorizzazione del capitale non sembra abbia prodotto i risultati sperati. Non siamo al tempo di un nuovo sviluppo, ma piuttosto di fronte a una stagnazione che coinvolge in primo luogo la storica locomotiva, la Germania. Soprattutto non è stata risolta la questione di fondo, il superamento delle divisioni tra i diversi paesi europei, l’assenza di un vero capitalismo integrato e di una governance politica comune indispensabili per operare nel caos geopolitico ed economico attuale.

La competitività economica di Draghi e la spinta all’Europa militare 

E’ toccato al gran commis del capitalismo Draghi proclamare la verità che il re è nudo, cioè la mancanza di competitività del capitalismo europeo, la sua debolezza non solo nei confronti della Cina, ma degli USA; il capitalismo europeo perde di fronte ad entrambi i colossi economici. Draghi ha espresso anche in cifre astronomiche i miliardi necessari per cercare di rilanciare la forza del capitalismo europeo, specificando che questo è possibile solo se si realizza una superiore convergenza europea unitaria dei capitalisti del continente. [1]

Ma le cose si sono complicate ancora più perché l’UE è stata presa in mezzo dalla decisione del regime russo di Putin nel suo disegno di ricostruire l’impero zarista con l’invasione della Ucraina. Anche la Russia è un imperialismo in difficoltà e in contrasto con l’imperialismo americano. Gli Usa si sono impegnati nel conflitto ucraino, ma soprattutto hanno impegnato a fondo i paesi europei incapaci di giocare un loro ruolo autonomo e fortemente colpiti sul piano economico dall’interruzione dei commerci con la Russia, a partire dai prodotti energetici a basso costo e rimpiazzati con quelli americani a costi assai più alti. La Germania sta patendo non poco di questa situazione. 

I capitalisti europei hanno quindi davanti ben due problemi: sviluppare la produttività e le capacità concorrenziali e darsi degli strumenti di governance e di gestione politica per poter fronteggiare le potenze concorrenti, quindi una superiore forma istituzionale e una strumentazione militare molto più forte, unita ed indipendente, pur nel quadro della Nato. 

La costruzione di una Europa militare e la proposta di passare da una economia di pace ad una economia di guerra sono sul tappeto e sono sostenute dalle dichiarazioni guerrafondaie dei vari soggetti di UE e da una campagna mediatica per preparare e assuefare l‘opinione pubblica alla possibilità della guerra. Il richiamo a “Se vuoi la pace, prepara la guerra” è ormai abituale e qualcuno anche va oltre chiosando che “si devono volere i cannoni se non si vuol perdere il burro”. 

Scriveva del 1999, durante l’intervento della Nato contro la Serbia, a proposito della UE, F. Vercammen: “Contrariamente a una mistificazione neoliberale, lo Stato nazionale, come sede della violenza armata, resta un mezzo indispensabile nella concorrenza economica mondiale. L’UE non dispone di tale strumento per le stesse ragioni che hanno pesato sulla creazione dell’Unione monetaria: l’impossibilità di attribuire poteri statali a una istituzione sopranazionale, paralisi che ha pesato anche sulla Politica estera e di sicurezza comune (PESC). Ma intanto, i grandi gruppi industriali-finanziari dell’Europa, per quanto multinazionali, hanno un grande “bisogno di Stato” che, di fronte ai loro concorrenti americani e giapponesi, dovrebbe essere europeo”.

Questa necessità di un ruolo militare della UE, nella Nato, ma anche indipendente da questa alleanza, costa molto in termini economici e non collima con il nuovo Patto di Stabilità appena varato, ma non definito del tutto, che ha al centro la riduzione del debito pubblico. Riarmo e militarizzazione difficilmente possono andare d’accordo con il contenimento delle spese statali e di riduzione del debito. E neppure possono automaticamente quadrare con il progetto fortemente economico e produttivo di Draghi (o per lo meno lo possono fare solo in parte). Una cosa però è certa e fondamentale: che questo progetto di rilancio del capitalismo europeo e la militarizzazione dell’Europa presuppongono un’austerità ancora maggiore, un attacco ulteriore al welfare, un fardello sempre più pesante sulle spalle delle classi lavoratici. [2] E con la recente normativa decisa dal parlamento europeo ancor di più si rafforza il concetto di fortezza Europa, politiche migratorie sempre più penalizzanti e crudeli nei confronti di chi fugge dalla fame e dalla guerra, e si rimette in discussione lo stesso concetto del diritto di asilo. L’involuzione reazionaria e violenta di questa Europa capitalista si manifesta sempre più a tutti i livelli. 

Le sfide per il movimento delle classi lavoratrici

Il movimento operaio e popolare ha di fronte una doppia sfida: le contraddizioni del sistema capitalista e il violento attacco delle classi padronali per superarle sulla pelle dei lavoratori rendono più che mai necessaria una battaglia anticapitalista per porre fine a questo sistema di sfruttamento e di ingiustizia, che trascina il mondo verso la guerra e la catastrofe sociale ed ambientale. 

La risposta da parte del movimento dei lavoratori non può che partire dalla dimensione sociale, dal rifiuto delle politiche di austerità in tutte le sue varianti, contrastando ogni tentativo di divisione, non ripiegando sul nazionalismo che farebbe solo il gioco dei padroni stessi, ma anzi praticando sempre di più una visione, una politica e una mobilitazione internazionale. 

Serve dunque un triplo passo:

  • lottare nel proprio paese contro la propria classe dominante e i suoi governi, respingere i ricatti e le politiche dell’austerità;
  • lottare contro i progetti di rilancio del capitalismo europeo e la corsa a riarmo e l’Europa militare, contro la fortezza Europa.
  • ricercare una mobilitazione europea, un’azione comune tra le lavoratrici e i lavoratori dei diversi paesi, a partire dalle fabbriche di una stessa multinazionale, dai settori e dalle categorie per contrastare i padroni costruendo una unità sempre più ampia al di sopra delle frontiere sia quelle storiche, sia quelle costruite contro i migranti.

In gioco è il futuro delle classi lavoratrici; nelle mobilitazioni sociali va ricostruito il nuovo progetto solidale e internazionalista contro il dominio del capitale. 

In realtà anche in Europa sono tanti i movimenti sociali presenti. Milioni di persone si rivoltano contro le politiche autoritarie, violente ed ingiuste, ma  se non emerge una mobilitazione sociale e sindacale convergente, senza una prospettiva collettiva ed emancipatrice, senza un progetto politico di alternativa anticapitalista è l’estrema destra che trae i massimi vantaggi e che rischia di essere vincente. Più che mai coloro che lottano e si ribellano devono unire le loro forze nella battaglia sociale. Era questo per altro la proposta della GKN quando ha lanciato l’appello dell’insorgenza e della convergenza.

La convergenza delle forze anticapitaliste

Ma anche sul piano politico, nel quadro delle elezioni europee, sarebbe stato necessario costruire uno schieramento forte contro l’Europa liberista, antidemocratica e sempre più militarista, per difendere le politiche della solidarietà e della giustizia sociale, le condizioni di vita delle classi lavoratrici e popolari, capace anche di portare le battaglie ecosocialiste in un Parlamento Europeo che non deve essere lasciato totalmente in mano alle forze delle destre estreme e alle altre forze conservatrici e socialiberiste del tutto interne alle logiche del sistema.

Si trattava di unire le forze di una sinistra di lotta con un chiaro programma di rottura con le logiche del capitalismo.

Contro l’Unione Europea capitalista, per una Europa dei lavoratori e dei popoli, per l’uscita dalla Nato e lo scioglimento di tutti i blocchi militari, per il cessate in  fuoco in Ucraina e il ritiro delle truppe russe, per il diritto all’autodeterminazione di tutti i popoli, perché cessi i genocidio del popolo palestinese da parte del governo israeliano e siano riconosciuti i suoi diritti, per l’accoglienza dei migranti e per la libertà di circolazione, la requisizione della grandi banche ed imprese, in primis quelle dell’energia, per porre fine alla corsa alle armi e alla guerra e la riconversione dell’industria bellica, per una transizione ecologica che rompa con il capitalismo e i produttivismo e una armonizzazione verso l’alto dei diritti sociali europei che vanno difesi con le unghie e coi denti, per la difesa dei diritti civili, per il diritto all’aborto, per i diritti delle donne e di LGBTQIA+. 

Non è questo lo scenario che si presenta nel nostro paese, in cui da una parte si presenta la lista di Sinistra italiana e dei Verdi che, se da una parte avanza un programma riformista e pacifista contro le politiche liberiste e di guerra, dall’altro configura da sempre strettamente la sua azione e il suo ambito politico all’interno della coalizione con il PD, che invece ha in varia forma gestito le politiche economiche ed istituzionali che hanno prodotto molte delle catastrofi attuali. Dall’altra parte l’eterogeneo raggruppamento promosso da Santoro che si propone una ispirazione pacifista, ma che raggruppa personaggi di varia ed incerta provenienza, alcuni anche sul versante campista di Putin, nonché varie altre ambiguità sia sul terreno della Nato che sul sostegno al popolo palestinese. Nello stesso tempo esiste la necessità e la volontà di tante e tanti militanti e soggetti di non lasciare spazio alle destre e di ripiegare nella semplice astensione nel quadro complessivo dato. Ci sono esponenti di movimenti sociali candidate/i che in qualche modo possono rappresentare pratiche e contenuti di alternativa alle destre e alle forze filocapitaliste, anche se non condividiamo in alcun modo le caratteristiche della lista in cui sono stati inseriti. Avrebbero potuto costituire candidature importanti in una lista anticapitalista e alternativa di cui si sente la grande necessità e che invece non è nata. 


[1] Draghi si lamenta dei concorrenti. “Abbiamo confidato nella parità di condizione globale e nell’ordine internazionale basato sulle regole, aspettandoci che gli altri facessero lo stso che non è stata rispettata la parità di condizioni globale e delle regole” quasi che non conosca il sistema capitalista, aggiungendo poi: “Ma ora altre regioni non rispettano più le regoler e stanno elaborando politiche che nella migliore delle ipotesi sono progettate per reindirizzare gli investimenti verso le loro economie a scapito delle nostr; e nel peggiore dei casi pere renderci permanentemente dipendenti”.

Il riferimento non è soltanto alla Cina, ma in primo luogo agli Stati Unit. “Ripristinare la nostra competitività non è qualcosa che possiamo raggiungere da solo o solo battendoci a vicenda. Ci impone di agire come Unione Europea in modo mai fatto prima”.

La Cina mira a catturare tutte le parti della catena di approvvigionamenti di tecnologie verdi ed avanzate e sta garantendo l’accesso alle risorse necessarie…. Gli Stati uniti stanno utilizzando una politica industriale su larga scala per attrarre capacità manifatturiere nazionali, utilizzando il protezionismo per escludere i concorrenti, dispiegano il loro potere geopolitico per riorientare e proteggere catene di approvvigionamento. I nostri rivali ci stanno precedendo perché possono agire come unico paese con un’unica strategia

Il nodo che attanaglia l’UE è in questa affermazione lapidaria.

[2] Scriveva Vercammen: In conclusione: “l’Europa militare dovrebbe risolvere tre rilevanti problemi:

      la tradizionale contraddizione tra i principali Stati che è la base dell’UE, come proto-stato sopranazionale, che offre un’ampia problematica sulle priorità politico-economiche nei campi della politica estera, della composizione e del funzionamento del comando, della riorganizzazione degli apparati militari nazionali, della costituzione di una industria militare europea che stenta a mettersi in moto;

•           i rapporti con gli Stati uniti, in seno alla Nato, ma con lo sfondo della ferocia della concorrenza e l’ampiezza degli interessi finanziari, commerciali e industriali coinvolti, fattore largamente minimizzato dai governi e dai media;

•           mettere le classi popolari in una condizione tale da far loro accettare i sacrifici: il che significherebbe in definitiva una nuova regressione del livello di vita, un aggravamento dello sfruttamento del lavoro, una limitazione pratica (e giuridica) delle libertà democratiche.”


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