Gianni SartoriScrivo in parte obtorto collo. Stanco di dovermi occupare di “guerre, guerriglie e guerricciole” trascorse (di cui, forse giustamente, non interessa più niente a nessuno).Eppur mi tocca.Con l’esigenza non sopprimibile di affrontare una questione irrisolta (più “esistenziale” – sicuramente personale – che storica). Magari per poterla definitivamente espellere dai meandri intricati della memoria.La prendo larga.Mi pare sia stato il situazionista Raoul Vaneigem a rammaricarsi per il mancato incontro tra personaggi che – ognuno a modo suo – avevano radicalmente tentato di “ribaltare l’ordine delle cose” (dello stato di cose presente). Vuoi nel sociale, vuoi nel linguaggio. E a tale proposito citava espressamente Buenaventura Durruti (tra i maggiori esponenti dell’anarchismo rivoluzionario del secolo scorso) e James Joyce (per il suo intransigente sperimentalismo linguistico).Pensando appunto che dall’incontro sarebbero potute scoppiare faville di nuove insorgenze. In realtà a volte è accaduto il contrario, quasi un corto circuito. Destabilizzante e inibitore.Penso all’incontro, storicamente accertato, tra due personaggi di grande spessore: l’alpinista e partigiano Gino Soldà (“comandante Paolo”) e il mitico TAR (Ferruccio Manea, comandante della Brigata Ismene). Quello ricordato da Luigi Meneghello in “Piccoli Maestri” (“l’uomo col berretto di pelo”) e in “Libera nos a Malo”.A conti fatti, senza sminuire i grandi meriti guadagnati sul campo da entrambi, tra i due prevalse prima un aspro contenzioso, poi (anche a distanza di decenni) una serie di reciproche accuse (di “tradimento” se non addirittura di “tentato omicidio”).E forse avrebbe potuto finire anche peggio.Affronto la cosa come ho detto malvolentieri, ma quasi “per dovere”.Un tributo alla loro memoria motivato dal fatto di averli conosciuti entrambi. Non quanto meritavano, ma abbastanza da entrare in confidenza, sentirmi raccontare peregrinazioni e vicissitudini di quei mesi – lunghi e intensi come quando la Storia accelera – dal ’43 al ’45 (in particolar modo dal TAR, con Soldà si parlava soprattutto di Montagne…).Ricordi riemersi dalla consultazione di un archivio fotografico personale dove ho ritrovato le immagini che avevo scattato al Tar in occasione di manifestazioni (quella di Padova per l’uccisione di Pedro nel 1985), iniziative antiapartheid (con il rappresentante del Pan African Congress) e funerali. Sia dell’Ardito del popolo Borela (un anarchico di Schio, il suo maestro) che di Alberto Sartori (con la bara portata a spalla sotto la neve tra decine di bandiere rosse, roba da Russia ’17).Invece per Soldà ho potuto attingere all’archivio del suo amico Placido Barbieri. Con le immagini in bianco e nero dell’anziano alpinista ormai ultrasettantenne, ma ancora in attività sulle Piccole Dolomiti.Due Grandi, sicuramente. Anche se – come si diceva- forse non erano fatti per comprendersi più di tanto. Fermo restando che il loro contributo alla lotta di Liberazione rimane insindacabile. Così del resto procedono le cose degli uomini. In maniera controversa, non lineare. Ma comunque procedono.Fino al 1943 le loro rispettive vite percorrevano sentieri distanti (anche se non si può escludere un incontro casuale, magari in Pasubio che entrambi frequentavano per ragioni diverse)Impervi e nascosti, talvolta notturni, quelli calpestati da un proletario geneticamente ribelle: lavoratore-bambino in filanda, emigrato in Sicilia, contrabbandiere, bracconiere, carcerato e perseguitato prima e dopo la guerra, con due fratelli volontari in Spagna a fianco dei repubblicani.Altrettanto impervi (e ripidi) quelli frequentati da un atleta di fama, vincitore di premi (medaglia d’oro nel 1936 per le imprese sul Sassolungo), sestogradista e sciatore (nel 1932 partecipò alle Olimpiadi invernali di Lake Placid), socialmente rispettato e tutto sommato esibito dal regime.Con il Tar destinato a incattivirsi per la morte orrenda del fratello Ismene. Comunista, catturato dai franchisti veniva consegnato a Mussolini. Imprigionato e deportato a Ventotene per sei anni, nel 1944 il partigiano “Bruno” venne brutalmente torturato e seviziato per un’intera settimana dai nazifascisti. Infine fatto sbranare ancora vivo dai cani delle SS.A cui si aggiunse – a guerra ormai terminata (maggio 1945) – la tragica fine del figlioletto del Tar per l’impossibilità economica di acquistare la penicillina (al mercato nero) e curarlo.Con una formazione politica ispirata dall’assidua frequentazione con un vecchio anarchico di Schio, il già citato Borela. Poi alimentata e coltivata dal comunista Alberto Sartori, Carlo.Mentre per il moderato Soldà era stato fondamentale l’incontro con il cattolico Torquato Fraccon (democristiano, tra i fondatori del CLN provinciale, martire a Mauthausen-Gusen con il figlio Franco; entrambi Giusti tra le nazioni). Con un ritorno – insieme all’amata Lena (staffetta partigiana, Magda) – a una vita normale nel dopoguerra. Guida alpina e imprenditore, meritati riconoscimenti pubblici e la partecipazione all’impresa del K2 (1954). Continuando ad arrampicare fino alla soglia degli ottanta anni.Pensando che forse la parte più significativa della sua partecipazione alla Resistenza è costituita dai ripetuti, rischiosi, salvataggi di ebrei (intere famiglie, i Klein, i Landmann…) e altri perseguitati (ex prigionieri alleati e internati) che conduceva oltre confine per i valichi alpini. Emulo in questo del suo amico- concorrente Ettore Castiglioni che in tali frangenti perse la vita .L’episodio chiave, attorno a cui ruota tutta la dolorosa faccenda (con il suo amaro strascico di polemiche) è quello dell’attacco (8 settembre 1944) alla caserma dei fascisti della 1° legione d’Assalto “Tagliamento” M. a San Vito di Leguzzano in Val Leogra. Un’azione che era costata la vita di due partigiani.A grandi linee le cose dovrebbero essere andate così. Più o meno.Tale formazione repubblichina (responsabile di rastrellamenti, saccheggi, omicidi, stupri e torture) aveva installato alcuni posti di blocco, occupato le scuole, il municipio, la casa della dottrina cristiana e infine anche il campanile. Inoltre in quel settembre del ’44 aveva imprigionato e torturato il “Barba” (Augusto Ghellini), comandante della Cesare Battisti (i “territoriali” di Malo). Qualche giorno prima nei pressi del cimitero era stato ucciso “Argiuna” (Fiorenzo Mario Costalunga). Inoltre, stando ai ricordi del Tar i fascisti “continuavano a provocare” dileggiando i partigiani. Tanto che l’animoso Ferruccio aveva sfidato pubblicamente a duello (con una lettera) il loro comandante (invito non raccolto).In questo contesto giunse la decisione di attaccare la caserma della Tagliamento.Il progetto (forse alimentato dall’errata percezione che – con il previsto sfondamento della linea gotica – la guerra stava per finire) era opera di Carlo (Alberto Sartori, da poco commissario politico della “Pasubiana”). Ma contemporaneamante i responsabili della “Stella” Jura (Armando Pagnotti) e Catone (Alfredo Rigodanzo) coltivavano l’ambiziosa idea di colpire in Val dell’Agno. Disarmando la brigata Nera “Turcato” e – forse – occupare la stessa Valdagno. Ignorando però che i comandi tedeschi andavano predisponendo l’operazione Timpano e che il felmaresciallo Kesserling stava per giungere a Recoaro (scelta come sede del suo Stato maggiore):Purtroppo ogni comando cospirava all’insaputa dell’altro. Per cui ai battaglioni della “Stella”, al “Cocco” e al “Tordo/Valdagno” (il gruppo di Soldà, comandante Paolo), attestati sui crinali tra Leogra e Agno, venne recapitato quasi in contemporanea l’ordine sia di Carlo (presentarsi a rapporto a Raga, sopra Magré) che di Jura (lasciare la zona Mucchione-Massignani-Monte di Malo per spostarsi a Selva di Trissino in vista dell’attacco a Valdagno).Va anche ricordato che l’urgenza dell’assalto alla caserma di san Vito derivava dalla necessità per i partigiani della “Pasubiana” di rifornirsi di armi. Infatti i devastanti rastrellamenti di agosto (v. Malga Zonta, 12 agosto 1944) avevano interrotto i rifornimenti con i lanci degli alleati.Del resto c’era stato un precedente. L’assalto nella notte tra il 23 e il 24 luglio ’44 al Sottosegretariato alla Marina della RSI a Montecchio Maggiore (tra i partecipanti anche Catone) che si era concluso con un proficuo bottino di armi.Venuto a conoscenza dell’equivoco, Carlo (Alberto Sartori), in qualità di ispettore del Gruppo di brigate, inviava a Catone un biglietto con l’ordine di “rimandare l’operazione su Valdagno e di bloccare il Cocco e il Tordo/Valdagno”.Catone ubbidisce al contrordine e giunto a Raga, in presenza dei due inviati del CNL provinciale, non può fare altro che sottoscrivere il progetto di Carlo.Probabilmente in un primo tempo l’attacco a san Vito prevedeva la partecipazione (oltre al battaglione Ismene, alcuni reparti della Stella e della Cesare Battisti) anche della pattuglia autonoma di Meneghello.Ma alla fine l’operazione risultò sostanzialmente un fallimento. Anche perché probabilmente qualcuno aveva preavvertito i fascisti di quanto si preparava. Il 7 settembre, intuendo che “la Tagliamento avrebbe potuto preparare una trappola” il Tar avvisò il Comando e l’azione venne temporaneamente sospesa.La mattina dell’8 giunse la notizia che si stava preparando un rastrellamento nella zona a monte di San Vito (contrade Pelagatti, Ongari e Nogara) e il Tar con i suoi uomini andò ad appostarsi in zona (“con le mitragliatrici”). Ma nel frattempo una pattuglia della Stella (insieme a quelli del Tordo/Valdagno nonostante la contrarietà di Paolo) si lanciava sulla strada della Guizza all’inseguimento di alcuni fascisti arrivando in prossimità della caserma.Sono circa le ore 17.00 quando il “Cocco” si posiziona a sud per attaccare le scuole mentre il Tordo/Valdagno si sposta a nord.Mentre Paolo (Gino Soldà) e altri cinque avanzano nel prato che sovrasta la chiesa e le scuole dal campanile partono raffiche di mitragliatrice. Vengono colpiti due garibaldini: il giovanissimo Eros (Pietro Braggion di Noventa Vicentina) e Cielo (Giuseppe Corà di Montecchio Maggiore). Intanto il Cocco attacca da sud e da est (dal torrente Giare) e i legionari che tentano una sortita vengono respinti da Spedia (Dino Sivieri) e altri partigiani.In loro aiuto era giunto “di corsa” il Tar con i suoi (tra cui: Pelo, Brocheta e Tripoli; rispettivamente Pietro Elvieri, Bruno Micheletto, Pietro Porra). Nonostante venga attaccato da un commando tedesco (Jagdkommando) appena giunto da Schio, il gruppo del Tar riesce a ferire due tedeschi e uccidere un legionario (Battista Volpi).Ritirandosi con i feriti (Binda, Spedia e Tempesta) e un prigioniero (verrà riconsegnato sotto la minaccia di fucilare venti abitanti del paese), sotto i colpi anche di un mortaio, raggiungono Cima Faedo e poi Montepiano.I corpi dei due partigiani caduti rimasero esposti per molti giorni “a monito per tutto il paese”. Solo alla sera di due giorni dopo il parroco potrà portarli al cimitero per seppelirli con Argiuna. In un messaggio scritto a Catone (dopo aver letto il rapporto del Tar) Carlo si mostra indignato per il fallimento di cui accusa soprattutto Paolo (e non Furia).Non sapendo che – come spiegherà Catone in un rapporto dl 16 settembre – era stato “l’eccessivo ardore combattivo degli uomini” a costringere Furia e Paolo, impossibilitati a frenarli, a condurli all’assalto.In tempi successivi, nel 1978, Soldà inputerà l’errore “ad un ordine arrivato prima del tempo” (ma senza indicarne la provenienza) definendo l’azione “non coordinata e poco ben fatta”. Senza riferimenti al gruppo del Tar.Ma intanto per una serie di equivoci (e magari un pizzico di mala fede, di invidia…) il Tar veniva considerato responsabile del fallimento (“per aver attaccato prematuramente”) e – addirittura – condannato a morte dai Comandi Garemi.Solo successivamente, grazie alle relazioni del distaccamento, venne scagionato. Non solo. Ebbe riconosciuto il merito di aver consentito lo sganciamento e il salvataggio dei feriti.Quanto a Gino, dopo la fallimentare impresa di san Vito di Leguzzano, riusciva comunque a entrare in contatto con il nucleo cattolico di Mariano (Michelangelo Dall’Armellina) a Noventa Vicentina e con la “Luigi Pierobon” (brigata cattolica padovana). Tentando invano di ricostituire il battaglione (molti vennero catturati e deportati), ma riuscendo comunque a mettere al sicuro moglie e figli a Noventa. Grazie all’aiuto della coraggiosa staffetta partigiana Angelina Peronato (amica di Eros e – come raccontava – testimone della cattura di Argiuna) che per questo rischierà l’arresto.Va poi ricordata la presenza di Soldà in casa di Fraccon, a Longara, al momento dell’arresto (26 ottobre 1944). Inseguito dai cani, Gino riuscì a fuggire in tempo dalla finestra dello scantinato con Ageno (Giordano Stella) sotto il fuoco delle SS del tenente Fritz Herke (non si esclude la presenza di SS italiane). Una volta – in casa di Placido Barbieri – mi raccontò che in primo momento a loro si era unito anche Franco Fraccon. Ma che era tornato indietro (nonostante Gino cercasse di trattenerlo) udendo le grida del padre picchiato dagli aguzzini. Entrambi i Fraccon, padre e figlio, verranno torturati, ma senza dare alcuna informazione. Concludendo il loro calvario a Mauthausen-Gusen nel maggio 1945.Questo per la Storia.Purtroppo qualcosa di irrisolto continuò nel tempo ad alimentare rancori e polemiche. Per esempio da parte di Alberto Sartori – Carlo – che considerava Soldà (a torto a mio avviso) responsabile della morte di Eros e Cielo.Mentre permaneva nell’alpinista recoarese il sospetto che Sartori e il Tar avessero cospirato mandando il suo gruppo allo sbaraglio (con l’intento di toglierlo di mezzo).Sospetto infondato. Così come quello del Tar che fosse lui (da tempo nel mirino dei “territoriali”) la vittima predestinata. Magari si fossero messi attorno a un tavolo per spiegarsi…scoprendo magari che effettivamente qualcuno aveva tramato nell’ombra per indebolire non questa o quella componente, ma il movimento partigiano vicentino nel suo complesso. Farlo uscire diviso, lacerato, malconcio… dalla guerra di Liberazione per ripristinare poteri e gerarchie. Invece rimasero con i loro dubbi e rancori e non se ne fece niente.Avendoli conosciuti entrambi, Gino e Ferruccio, negli anni ottanta mi ero posto il problema se fosse possibile farli incontrare. Per un chiarimento se non per una riconciliazione. Alquanto improbabile naturalmente, ma non si sa mai.Poi però sia Gino (a 82 anni nel 1989) che il Tar (a 86 anni nel 2001) se ne erano andati. Avendo nel frattempo conosciuto i figli (conservo il libro “Comandante Paolo” con dedica di Manlio Soldà e una foto di un figlio del Tar a Malga Zonta) pensai di riprovarci. Risultando alquanto problematica, difficoltosa la proposta cadde ancora nel vuoto.Rimaneva comunque una mia esigenza (sentimentale, forse irrazionale…) di ricucire in qualche modo il ricordo di due persone che avevo stimato e rispettato.Ricostruire vicende che nel travagliato “secolo breve” potevano apparire come contrapposte. Ma che forse – da un punto di vista più ampio – in realtà erano complementari. Almeno in parte.Tutto qui.Gianni SartoriBibliografia:1) Patrizia Greco, “Nome di battaglia Tar” (prefazione di Mario Isnenghi) Cierre edizioni-Istrevi, 2010
“Gino Soldà e il suo tempo” Cierre edizioni-Istrevi- Comune di Valdagno, 2008
Angelina Peronato, “ I ribelli per amore”, 1961 (riedizione a cura delle Sorelle e dei Nipoti 2005) Giuseppe Magrin, “Comandante Paolo” Bibliofila Storico Militare, 2003 Katia Zonta, “9 settembre 1944 – Il rastrellamento di Piana e Selva di Trissino”, Città di Valdagno ed., 2005
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