di Gianni Sartori
Per completezza, per dovere di cronaca o per “dare a Cesare quel che è di Cesare…” intervengo su una questione quantomeno “datata”.
Recentemente in qualche sito, blog dichiaratamente marxista e leninista (con o senza trattino) veniva riesumata la questione “Berneri”. Mettendo in discussione le responsabilità staliniste (del PSUC) nella sua prematura dipartita. Con l’avvallo illustre del libro “Il caso Berneri” di Saverio Werther Pechar (edito da ANPPIA).
Per inciso. Berneri viene assassinato in data 5 maggio (1937), lo stesso giorno in cui verrà massacrato di botte Franco Serantini nel 1972. Il giovane libertario sardo figlio di N.N. morirà in carcere, senza essere stato curato, due giorni dopo.
Ora, fermo restando che si parla di un mondo (rapporti sociali, composizione di classe etc.) che semplicemente non esiste più, è perlomeno curioso il cambio di paradigma (come direbbe il buon Ocalan).
Se in passato (fine anni sessanta, primi settanta nella mia esperienza personale) lo rivendicavano apertamente sia quelli di PotOp che del PCI (ma anche, ricordo bene, qualcuno di LC), ora sembrano voler minimizzare, giustificare…
Non dico “revisionismo storico”, ma quasi.
Senza farsi trascinare nei meandri più o meno oscuri della vicenda, mi pare evidente che l’uccisione degli anarchici Berneri e Barbieri (così come quella di Andrès Nin del POUM, accusato di essere un agente della Gestapo, di un fratello di Ascaso…) rientrava in una operazione generale di repressione, sottomissione dell’azione autonoma messa in atto dal proletariato iberico. Sia in Catalogna nel maggio ’37 che in Aragona, dove in seguito (agosto 1937) intervenne Lister contro le collettivizzazioni. Berneri e Barbieri vengono assassinati in questo clima generale di repressione “termidoriana”. Una “coincidenza” quantomeno sospetta.
Riesumare la questione di un presunto trasferimento clandestino di oro dalla Spagna alla Francia, organizzato dal Ministro del governo repubblicano, Ángel Galarza in combutta con un ambiguo personaggio, il trafficante (ex ?) fascista italo-ungherese Baldassare Londero (oro forse intercettato dagli anarchici che se lo sarebbero poi spartito – inverosimile direi – con quelli di Estat Català e finito in parte a casa di Berneri) sa tanto di fuorviante depistaggio. Cavillare su questioni secondarie (senza volerle escludere in toto e a priori; può succedere che varie e complesse vicende siano intrecciate) è un metodo ben sperimentato per distrarre da quella principale. Per dire: se domani si dovesse scoprire che qualche anarchico è stato ammazzato da qualche stalinista (o il contrario) perché il primo lo aveva cornificato, questo non cambierebbe la sostanza storica del “massacro di Barcellona”. Innescato dal tentativo del PSUC di prendere il controllo della strategica Centrale telefonica in mano agli anarchici dal luglio ’36 (quando la sollevazione in armi del proletariato barcellonese, guidato da CNT e FAI, aveva stroncato sul nascere l’iniziativa dei militari franchisti).
Tra l’altro, viene ribaltata la tradizionale, consolidata posizione m-l di chi sosteneva che l’anarchismo iberico fosse espressione dell’arretratezza politica (intrisa di “messianesimo apocalittico”) delle masse contadine e bracciantili in contrapposizione alla più matura classe operaia. Qualcosa del genere lo aveva fatto Godard. Con maggiore onestà intellettuale e in tempi non sospetti, da maoista coerente, quando sosteneva che “mal interpretando le indicazioni di Stalin, il PSUC represse le comuni agricole” (le collettivizzazioni autogestite). Dimenticando entrambi che lo stesso era avvenuto nelle fabbriche barcellonesi e che la CNT era ben presente e radicata (con oltre un milione e mezzo di iscritti, non tutti necessariamente anarchici) nella classe operaia.
Nei commenti si tocca letteralmente il fondo sostenendo falsamente che “ai poumisti che chiedevano (o meglio: scrivevano sui muri nda) “donde està Nin ?” (di solito in catalano)…gli stalinisti spagnoli replicassero “donde estas Maurin?” (di solito in castigliano). In riferimento al presunto trattamento di favore nei confronti di Maurin (insieme a Nin fondatore del POUM) arrestato dai franchisti.
Mentre in realtà la velenosa risposta (storicamente documentata, per iscritto) era “està a Burgos o a Berlin”. Volendo negare che Nin fosse stato assassinato (e il suo corpo fatto sparire seppellendolo, pare, sotto la pista di un aeroporto, come CHE Guevara) e che in realtà si fosse messo al sicuro territorio fascista (permangono dubbi sull’identità di un cadavere recuperato una ventina di anni fa nei pressi di Alcalà de Henares).
Ripeto. A mio avviso, la questione principale rimane quella della repressione operata dagli stalinisti (e da qualche esponente dell’indipendentismo catalano). Per imporre la militarizzazione delle milizie e lo svuotamento (manu militari) dell’esperienza collettivista, consiliare e autogestionaria (in difesa oltretutto della proprietà privata da parte del PSUC). In pratica, come ricordava Claudio Venza “ricostruire stato ed esercito e difendere la proprietà privata”.
Il resto sono quisquillie (armi di distrazione, sofismi e specchi deformanti della prospettiva storica).
Avevo anche conosciuto qualche testimone della vicenda. Due in particolare: il triestino Umberto Tommasini (anche lui arrestato dagli stalinisti mentre, ricordava Venza “stava iniziando un’azione contro le navi fasciste italiane” e salvato in extremis dall’intervento della CNT) e Umberto Marzocchi. A Carrara (nel 1972, con Alfonso Failla) mi aveva raccontato di aver dovuto assolvere al doloroso compito di riconoscere il cadavere del compagno e amico Berneri. Nessuno di loro, così come Abel Paz (incontrato sulle ramblas nel 1979 mi pare) e anche il comunista triestino-vicentino Visentini Ferrer, se pur a denti stretti (era arrivato a Barcellona nel novembre 1937, quindi mesi dopo i tragici eventi di cui non poteva avere alcuna responsabilità), aveva mai messo in dubbio le responsabilità oggettive dello stalinismo nell’esecuzione extragiudiziale dei due militanti libertari italiani.
Va anche detto che comunque non andrebbe attribuita alle contraddizioni (eufemismo) interne del fronte repubblicano la vittoria franchista. Molto più determinante fu il sostegno militare nazifascista.
Fermo restando che su tutto questo ormai si è posata la polvere dell’anacronismo, dell’irrilevanza, della non riproducibilità. Anche se qualcosa dello spirito rivoluzionario e libertario di allora sopravvive, sotto altra forma e con “altri mezzi”, nell’esperienza del Rojava. Volendo semplificare: con l’Isis e Erdogan nelle vesti della Falange e di Franco, Assad (si parva licet) in quelle di Stalin e i curdi, ovviamente, in quelle di ciennetisti e poumisti. Forse.
A distanza di un secolo magari può ancora smuovere i catramosi, arteriosclerotici sentimenti di qualche settantenne sopravvissuto al ’68 e dintorni. Non coinvolgere più di tanto chi si deve confrontare con l’apocalisse ambientale, l’estinzione di massa degli “altri animali” e la guerra ibrida universale (a macchie di leopardo) in atto. Con il genocidio aperto dei palestinesi e quello strisciante di curdi, mapuche e adivasi (per citarne solo qualcuno).
Vorrei poter concludere con un lapidario “No pasaran!”, ma temo che in realtà siano già passati a nostra insaputa.
Gianni Sartori
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