di Gianni Sartori

Ci sono notizie che non si vorrebbe mai sentire, tantomeno divulgare. Un’altra “morte piccina” (ricordate? “‘nte sta çittæ/ch’a brûxa ch’a brûxa/inta seia che chin-a/e in stu gran ciaeu de feugu/pe a teu morte piccin-a), quella di un bimbo di quattro anni morto per il freddo mentre la sua famiglia, originaria di Afrin, fuggiva dalla regione di Shehba sotto assedio jihadista verso Raqqa. Nûh Mihemed Reşo è morto così, allo stadio di Raqqa a causa delle rigide temperature sopportate durante la fuga da Shehba dove i suoi genitori, allora in fuga da Afrin, si erano rifugiati nel 2018.

Non si muore quindi soltanto sotto i colpi delle armi dei mercenari di Ankara, ma anche di freddo o di sfinimento, sulle strade, nei campi e nei rifugi improvvisati.

Malgrado tutti i suoi sforzi l’AADNES (Amministrazione Autonoma Democratica del Nord e dell’Est della Siria) non è più in grado di proteggere, nutrire, riscaldare le vittime dell’esodo, ormai decine di migliaia. Un’autentica catastrofe umanitaria che necessiterebbe di ben altre risorse. Da qui la pressante richiesta di sostegno rivolto alla comunità internazionale e in particolare dell’apertura del posto di frontiera di Til Kocer da cui far affluire gli aiuti.

Così, mentre va crescendo a dismisura il numero degli sfollati (ben oltre centomila), aumenta anche il numero delle vittime. Non solo per i combattimenti, i bombardamenti e le uccisioni extragiudiziali. Queste per lo più opera dei miliziani jihadisti di HTS che impudentemente ostentano emblemi dell’Isis sulle divise. Talvolta sventolando bandiere turche. Con il soidisant SNA (Esercito Nazionale Siriano, sul libro paga di Ankara) imperversano nella città di Afrin (sotto occupazione dal 2018) applicando dure misure repressive nei confronti delle minoranze etniche e soprattutto delle donne.

A seguito dell’occupazione di Aleppo, le operazioni militari si vanno intensificate verso i territori dell’AADNES dove dal 2014 si sperimenta il Confederalismo democratico.

Da giorni pesanti bombardamenti si riversano sulla regione di Shehba, posta sulla linea di congiunzione tra i distretti autonomi di Aleppo e altre aree amministrate dall’AADNES (Manbij e Til Rifaat). Oltre che da anni riparo e rifugio per decine di migliaia di persone fuggite dal cantone di Afrin

Va ribadito fino alla nausea che HTS e SNA non sono né “ribelli”, né “insorti” (come si ostina a classificarli buona parte dei media), ma mercenari al servizio della Turchia. Attivati con lo scopo (magari non l’unico, ma forse quello preponderante) di finirla una volta per tutte con l’esperienza (contagiosa, come i sogni ad occhi aperti di Corto Maltese) del Confederalismo democratico.

Obiettivo che può essere ottenuto da Ankara soltanto con la sconfitta dei curdi e degli altri popoli oppressi che partecipano al rivoluzionario progetto.

E’ quindi assai probabile che – dopo quello vincente di Aleppo – HTS e soprattutto SNA (su mandato di Ankara) siano in procinto di portare l’assalto finale a Manbij. Città multietnica dove arabi e curdi convivono con circassi, turcomanni, armeni e ceceni.

L’offensiva sarebbe imminente, stando a quanto dichiarava Khaled Davrisch, rappresentante dell’AADNES in Germania: “Dopo la conquista di Aleppo e di altre zone del nord della Siria da parte delle milizie jihadiste, i movimenti delle truppe del SNA stanno a indicare un possibile attacco contro Manbij”.

Per poi precisare che – se la Turchia attaccasse la città con i suoi mercenari islamisti – esiste il “concreto rischio di un massacro e dello spostamento forzato di decine di migliaia di persone”. In ogni caso “in quanto forze armate dell’AADNES eserciteremo il diritto all’autodifesa e proteggeremo la popolazione civile”.

Ricordando come Manbij venne liberata dall’Isis nel 2016, consentendo a migliaia di persone di rientrare nelle loro abitazioni.
Combattimenti propedeutici all’attacco sono già in corso, forse per tastare il terreno.

Da un comunicato delle FDS (Forze Democratiche Siriane) si apprende che “diversi mercenari dell’occupazione turca sono stati eliminati o feriti durante i violenti scontri (dalla mattinata del 3 dicembre a quella del 4 nda) con il Consiglio Militare di Manbij nelle aree rurali del sud di Manbij; altri ancora negli scontri con il Consiglio Militare di Tabqa nell’area di Deir Hafer”.

Riaffermando la ferma intenzione di “opporsi a ogni attacco dei terroristi”.

Gianni Sartori


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