Dopo la riflessione del compagno Piero Bernocchi (che fa riferimento alle posizioni dell’associazione palestinese di Roma e del Lazio e alla conseguente scelta di Rifondazione Comunista di NON aderire alla manifestazione del 5 ottobre), pubblichiamo il post, apparso sulla pagina Facebook del compagno Mario Gangarossa, che si inserisce, pur valutazioni diverse sul ruolo delle cosiddette “lotte per l’autodeterminazione nazionale”, nel solco di questa presa di distanza dal terzomondismo “etnico” da quattro soldi che ha contaminato non poche organizzazioni di sinistra. (FG)

Di solito le MANIFESTAZIONI NAZIONALI sono il risultato di un lungo e estenuante lavoro politico, sono il punto di arrivo di un movimento che trova in quel particolare giorno e in quel particolare posto un momento di unità.

Sono la fine di un percorso e un momento che segna un “salto di qualità”, una svolta nel corso degli eventi.

Men che meno sono occasioni per testimoniare la propria soggettiva capacità di “vincere” lo scontro con l’apparato repressivo dello Stato che è molto più forte di noi.

Qualche migliaio di manifestanti, chiusi in una piazza senza vie di uscita, messisi in trappola con le loro stesse mani, isolati dal paese e dalle forze reali e materiali della società, sono una prova di DEBOLEZZA non di forza.

Una simile azione serve solo a scatenare la repressione sulla massa indifesa di chi partecipa ai cortei fiducioso nel suo diritto costituzionale e nella “democrazia” che non ti ripara dai colpi di manganello ne dagli idranti e nemmeno, fra un paio di mesi, dal poliziotto che ti verrà a prendere a casa alle sei del mattino e ti porterà a processo perché la tua faccia appare in una delle centinaia di fotografie che ti hanno ripreso mentre gridavi “corteo, corteo”.

Certo hai dimostrato di essere “vittima” di uno Stato odioso che ha le mani sporche del sangue di innocenti, ma le manifestazioni non si fanno per rafforzare il vittimismo, né “per prenderle”.

Si fanno possibilmente per dimostrare la propria forza.

E quando la forza non c’è non la si può sostituire con la retorica.

Perché l’indomani il movimento complessivo contro la guerra è più debole.

E tu sei più isolato politicamente dal resto della società che continuerà a ignorarti.

Genova non ci ha insegnato nulla?

La macelleria messicana non ha “temprato” chi l’ha subita. Ha prodotto il RIFLUSSO. E dopo Genova non c’è stato più nulla sul terreno della lotta allo Stato e alle sue politiche di guerra.

Sostenere una manifestazione “non autorizzata” comporta una capacità organizzativa, un livello di coscienza, e perfino una esperienza militante che non c’è.

Affrontare una manifestazione in un paese BELLIGERANTE in cui l’intero apparato della classe dominante è impegnato a sostenere i suoi amici e alleati , comporta un consenso di massa che puoi ottenere dopo un lungo lavoro politico contro la guerra e i suoi effetti devastanti sulla materialità della vita che la guerra produce.

Occorre che ci sia un clima diffuso di antagonismo di massa, uno stato di conflitto permanente.

Un movimento reale.

Due anni e mezzo di guerra dichiarata e praticata, non ci hanno fatto vedere NULLA di qualitativamente cambiato nel tran tran di un paese che la guerra la ignora, come qualcosa che non gli appartiene e non lo riguarda.

A parte qualche episodio non si sono visti né scioperi né manifestazioni di massa significative contro il conflitto in corso, i suoi pericoli, i suoi effetti devastanti sulla vita materiale dell’intero popolo italiano.

Un movimento contro la guerra NON c’è stato e NON c’è.

E oggi NESSUNO è in grado di sostenere uno scontro di piazza adeguato al livello imposto da uno Stato in guerra. Così come nessuno è in grado di fermare la fascistizzazione strisciante e lo stato di emergenza.

La risposta alla guerra annunciata è stata debolissima, o pressoché assente, in tutti i settori della società.

Nulla può farci immaginare che in virtù di qualche miracolo “dialettico”, se fosse imposto formalmente il codice militare, la risposta sarebbe diversa.

Il livello di scontro lo decide SEMPRE chi ha il potere politico, lo Stato.

Ed è nell’interesse di questo Stato alzare il livello dello scontro per stroncare sul nascere ogni forma di dissenso e rendere pacificato il fronte interno.

La compagnieria e la corte dei miracoli che la influenza deve prendere atto che siamo in guerra.

Che la democrazia è sospesa.

Che non c’è nessun diritto a manifestare.

E che è già tanto se ti processano e non ti fucilano sul posto.

E allora? Non bisognava andare in piazza?

No. Bisognava andarci ma non, come ha fatto la totalità della nomenclatura di sinistra, alla coda degli organizzatori e delle loro farneticazioni nazional-islamiste.

Andarci su una piattaforma e con una prospettiva classista e internazionalista, portando la voce di tutte le vittime di tutti i conflitti e del loro rifiuto di essere carne da macello nel conflitto in corso.

Andarci da disfattisti, che alle guerre nazionali contrappongono la guerra di classe.

Andarci, come “provocatori”, come comunisti, per marcare una differenza, con i microgruppi che giocano alla guerra e dare una prospettiva politica alle centinaia di giovani mandati allo sbaraglio e destinati a essere “bruciati” sull’altare della autoreferenzialità delle mosche cocchiere a caccia di visibilità e di “medagliette”.

Se ogni manifestazione è un punto di svolta, grande o piccolo che sia, quella di ieri ha segnato il punto più basso raggiunto dalla “sinistra antagonista” e l’immagine plastica del vicolo cieco in cui si è cacciata.

Quel corteo in giro per la piazza assediata dà il senso preciso del circolo vizioso in cui si sono cacciati gli “antimperialisti” al servizio degli imperialisti concorrenti.

La “tattica”, anche la tattica di una manifestazione, va sempre di pari passo con la strategia di cui è espressione.

“Il 7 ottobre è l’inizio della rivoluzione dei popoli appressi”.

NO il 7 ottobre è l’inizio della resa dei conti di Israele (e dei suoi alleati) contro l’Iran (e i suoi alleati islamisti).

E’ un episodio della guerra totale “a pezzi” che sta coinvolgendo l’intero pianeta.

Schierarsi dalla parte di una delle nazioni concorrenti in una guerra ormai mondiale significa rinunciare alla propria autonomia.

Svolgere il ruolo di MERCENARI.

Essere il “nemico che marcia alla testa” di chi la guerra la vive come una sventura e che ha un unico bisogno e un’unica necessità.

NON CREPARE.

Oggi la questione non è “attaccare l’imperialismo” (Usa) diventando strumento degli imperialismi concorrenti.

Oggi la questione, per le masse popolari, è come DIFENDERSI dalla guerra.

Come non essere coinvolti nello scontro fra i briganti che si spartiscono il mondo.

Come non vivere l’esperienza genocida un’altra Gaza.

Costruire una prassi, una organizzazione, una linea politica autonoma dallo scontro fra le opposte partigianerie.

Capisco benissimo che le nostre forze sono irrisorie e che quando ci siamo, siamo troppo impegnati a rivendicare una “purezza ideologica” che è pura accademia.

Ma è l’unica strada da percorrere.

“Trasformare la guerra in rivoluzione” sociale ha necessariamente come premessa incondizionata il RIFIUTO della guerra e il rifiuto di arruolarsi al servizio di una delle parti in conflitto.

E un punto di passaggio necessario.

La questione non è “chi vince”.

E nemmeno se chi vince rende “più facile o più difficile” la lotta del proletariato oppresso.

Chiunque vinca i proletari perdono.

Hanno perso a Gaza, hanno perso in Libano, in Iran, in Israele, in Ucraina, e in Russia.

E hanno perso in Europa.

Il cammino è lungo ma non è affatto tortuoso se si tiene diritta la bussola.

PACE e PANE.

E’ l’unica cosa per cui vale la pena combattere.


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