[continuazione dell’articolo pubblicato il 12 settembre]
Nel mondo arabo le rivendicazioni nazionaliste antimperialiste (contro gli Ottomani prima, contro inglesi e francesi poi, contro israeliani e nordamericani negli ultimi decenni) sono state spesso influenzate dall’Islamismo, sia in senso culturale che religioso. Non è un caso che spesso i nazionalisti “laici” provenissero dalle minoranze arabo-cristiane, in Libano, Siria, Iraq, ecc. Il movimento comunista, pur non arrivando mai al radicamento ottenuto in Europa o in Estremo Oriente, ebbe una certa forza in alcuni paesi, e quasi sempre espresse solidarietà ed appoggio alle rivendicazioni nazionaliste di “autodeterminazione nazionale”, venendo quasi sempre ripagato (Iraq, Sudan, Egitto, ecc.) con la politica del bastone (molto) e della carota (poca). Nel caso della Palestina la situazione appare ancor più complicata dalla crescente presenza, a partire dagli anni Venti, degli immigrati sionisti provenienti in gran parte dall’Europa centro-orientale. In quel periodo non si può parlare di un vero e proprio “nazionalismo” arabo-palestinese, né in senso anti ottomano fino al 1918, né in senso antibritannico poi. Gli unici “nazionalisti” attivi erano i sionisti (seppur privi di qualunque afflato “antimperialista”), i “nazionalisti ebrei” che avevano iniziato ad immigrare, poche centinaia ogni anno, a partire dagli anni ’80 dell’Ottocento. I sionisti, in genere di cultura europea e di lingua yiddish (anche se in seguito riuscirono a ridar vita alla lingua ebraica, ridotta da secoli nell’ambito liturgico), erano molto diversi dagli arabi palestinesi di religione ebraica, che vivevano da secoli, come minoranza ufficiale (tra il 4 e il 5%), a fianco degli altri arabi di religione cristiana e musulmana. Se per i sionisti “l’autodeterminazione del popolo ebraico” significava la colonizzazione della Palestina (seppur con interpretazioni molto divergenti), per la maggioranza degli autoctoni si trattava di un “corpo estraneo”, dotato di cultura, denaro e un crescente potere economico. Nel 1914 gli “ebrei”, sia di lingua araba che i nuovi immigrati di lingua yiddish, erano solo il 7,5% della popolazione. I primi comunisti palestinesi furono tutti ebrei di cultura yiddish, che fondarono il Partito Comunista della Palestina nel 1923, schierandosi da subito contro il sionismo, ritenuto uno strumento al servizio dell’imperialismo britannico. A partire dalla “Dichiarazione Balfour” del 1917, l’immigrazione di ebrei dall’Europa crebbe, pur costituendo, ancora nel 1922, solo poco più dell’11% della popolazione (compresi gli ebrei di lingua araba storicamente presenti). Comunque sia, il PCP tentò di reclutare i proletari arabi, con scarso successo. visto che nel 1925 solo 8 arabi erano membri del partito. L’estrema debolezza della sinistra tra i beduini ed in genere nella maggioranza arabo-musulmana palestinese, contrapposta alla sua forza tra gli immigrati ebrei europei (non solo i comunisti, ma anche la sinistra sionista, a quei tempi largamente maggioritaria tra i nuovi arrivati, memori dell’antisemitismo delle destre) crearono (in parte ciò avviene tuttora) una serie di illusioni, anche se la Terza Internazionale, con una profetica dichiarazione del 1925, condannò il sionismo palestinese come quinta colonna dell’imperialismo britannico. La presa di coscienza, da parte della maggioranza araba, cristiana e musulmana, del legame tra sionismo e imperialismo britannico, con conseguente sviluppo di un movimento “nazionale” arabo-palestinese, avvenne molto lentamente, ed ebbe nei primi anni caratteristiche islamistiche e reazionarie, grazie alla promozione, fatta dai britannici, del ruolo dei capi religiosi musulmani a scapito dei piccoli gruppi nazionalisti (come il Comitato Esecutivo Arabo). I primi scontri significativi avvennero nel 1929, per motivi “religiosi” (accesso ai cosiddetti “luoghi sacri” di entrambe le religioni) e furono in genere reciproci pogrom (133 morti tra gli ebrei, 110 tra gli arabi). In quel momento la popolazione ebraica era intorno al 15% dell’intera Palestina, ma stava sempre più prendendo in mano l’economia (il reddito pro capite degli ebrei era il triplo di quello degli arabi) e la vita culturale del paese. Con la presa del potere da parte dei nazisti in Germania, il flusso di immigrati che fuggivano dalle persecuzioni (molti dei quali tutt’altro che sionisti) aumentò, fino a superare il 20% della popolazione totale verso la metà degli anni Trenta. In questo contesto si scatenò la grande rivolta araba (1936-39), guidata dal Gran Muftì di Gerusalemme, e la fondazione dell’Alto Comitato Arabo (1936), presieduto dal Muftì stesso, che riuniva i vari clan tribali e i piccoli partiti arabi, in un certo senso il primo movimento di massa al tempo stesso anti-sionista ed anti-britannico. Il fallimento della Grande Rivolta, che ebbe il non previsto effetto di sviluppare ancor più la collaborazione tra britannici e sionisti (che avevano formato la loro milizia, Haganah), e causò migliaia di morti, feriti e carcerati tra gli arabi, spinse il Gran Muftì a rivolgersi ai nemici dei britannici (tra l’altro antisemiti), cioè la Germania nazista e l’Italia fascista, il che, sia detto per inciso, viene usato abbondantemente dalla propaganda sionista, oggi come allora. L’unico sottoprodotto “positivo” per gli arabi fu la decisione britannica, nel maggio 1939 (il III libro Bianco), di limitare l’immigrazione ebraica in Palestina (il che portò alla rottura tra la minoritaria destra sionista e i colonialisti inglesi). I conflitti tra i sionisti e i britannici non erano una novità assoluta, ma dopo la pubblicazione del Libro Bianco, grazie all’attività dell’Irgun e soprattutto della Banda Stern (estrema destra filo-fascista) divennero la norma. Tra il 1939 e il 1945, comunque, l’immigrazione ebraica, legale ed illegale, continuò, portando la percentuale di ebrei intorno ad un terzo della popolazione. Paradossale il fatto che in questo periodo, al di là dell’appoggio del Gran Muftì alle potenze nazifasciste in funzione anti-ebraica, la “lotta anti-britannica” (presuntamente antimperialista) fosse condotta solo dall’estrema destra sionista. La spartizione della Palestina in due stati, uno “ebraico” e l’altro “arabo”, era una soluzione già proposta dai britannici tra il 1937 e il 1939 (rifiutata soprattutto dagli arabi), e venne riproposta dal neonato ONU nel 1947. Il nuovo rifiuto arabo (ed anche della destra sionista, tuttavia minoritaria tra gli ebrei) portò, dopo un susseguirsi di scontri paragonabili a quelli del ’29 e del ’36-39 (684 arabi e 652 ebrei morti nei primi mesi del ’48) alla prima guerra arabo-israeliana (Israele fu il nome scelto per lo stato ebraico di Palestina) del 1948, vinta dagli israeliani, che si impossessarono del 70% della Palestina (invece del 54% proposto dall’ONU). Significativo della sostanziale debolezza del nazionalismo arabo-palestinese il fatto che la guerra vide protagonisti gli stati arabi, e nessuna organizzazione “nazionale” palestinese. Per quanto riguarda i comunisti palestinesi in questo periodo, pur restando prevalentemente radicati tra gli immigrati ebrei dell’Europa centro-orientale, la loro politica antisionista e antimperialista (e la spinta per “l’arabizzazione” del partito sponsorizzata da Mosca) cominciò a portare alcuni frutti durante gli anni Trenta anche tra la popolazione arabo-cristiana. Nel 1934 infatti fu eletto, per la prima volta, un segretario del partito di provenienza arabo-cristiana, Radwan Al Hilu, che rimase tale sino alla scissione del 1943, che vide la nascita, l’anno dopo, di un partito comunista di Palestina “ebraico” (che mantenne il nome fino al 1948) e di uno “arabo” (che, nel 1944 si chiamò Lega di Liberazione Nazionale). Entrambi i partiti si opponevano alla spartizione della Palestina fino a quando, nel 1947, l’URSS decise di appoggiare il piano dell’ONU, il che portò entrambi a cambiare posizione. Dopo la fondazione dello stato di Israele, i due partiti tornarono ad unirsi nel nuovo Partito Comunista d’Israele (MAKI) che, pur continuando ad essere anti-sionista, aderì alla proposta “due popoli, due stati”, rinunciando allo storico programma di una Palestina unita, aconfessionale e democratica. Ovviamente la sconfitta araba del 1948, con la forzata emigrazione di centinaia di migliaia di arabo-palestinesi, creò le condizione per un movimento di “liberazione nazionale” contrapposto non più all’imperialismo britannico, ma al neonato stato sionista. In realtà, fino agli anni Sessanta, più che di un vero e proprio movimento “palestinese”, si trattò di organizzazioni para-statali (come a Gaza) legate agli altri stati arabi (principalmente Egitto e Giordania). Solo nel 1964 nasce l’Organizzazione di Liberazione della Palestina (OLP) che unisce vari movimenti e partiti arabo-palestinesi e che punta alla creazione di una Palestina araba in cui la minoranza ebraica abbia riconosciuti i suoi diritti (eccetto per i sionisti, il che non è poco). A partire da allora, e in particolare dopo la disastrosa (per il nazionalismo arabo) Guerra dei Sei Giorni (1967), l’OLP ha svolto un ruolo da protagonista (in particolare Fatah, il partito di Arafat, ma pure il Fronte Popolare e il Fronte Democratico) almeno fino agli anni Novanta, nella lotta per la “liberazione nazionale” degli arabo-palestinesi. Per quanto riguarda le organizzazioni che si richiamavano al marxismo in Palestina, dopo il 1948 si assistette alla prevedibile dinamica divergente, in un susseguirsi di scissioni e ricomposizioni. Schematicamente si può dire che in generale i comunisti “israeliani” ufficiali (che ottenevano tra il 4 e il 5% dei voti alle elezioni), radicati soprattutto tra gli ebrei e gli arabi cristiani, mantennero una posizione moderatamente antisionista, pur nella logica dei “due popoli, due stati”. Questo “moderatismo” portò alla formazione, negli anni Sessanta, di gruppi e partiti più radicalmente (il più famoso fu il Matzpen) antisionisti, sostenitori di una Palestina democratica, laica e socialista per tutti i popoli della regione (arabi, ebrei, drusi, ecc.), gruppi repressi in Israele e non troppo ben visti nemmeno nelle zone arabe, soprattutto dopo l’ascesa dell’islamismo politico negli ultimi decenni. Per quanto riguarda i comunisti arabo-palestinesi in Cisgiordania e Gaza, dopo l’occupazione del 1967 diedero vita ad organizzazioni locali, che nel 1982 si fusero in un Partito Comunista Palestinese. Questi ebbe un ruolo rilevante nella prima intifada (1987) e, nello stesso anno, decise di entrare nell’OLP. Nel 1991, dopo il crollo dell’URSS, cambiò nome (Partito del Popolo Palestinese), mantenendo la posizione di “Due popoli, due stati” e mettendo l’accento sulla “liberazione nazionale” rispetto alla lotta di classe. La situazione di radicalizzazione (a destra) di entrambi i nazionalismi (quello colonialista-sionista e quello arabo-palestinese) degli ultimi decenni può essere sintetizzata dallo specchio deformato delle elezioni. In Israele, nel 1977, per la prima volta nella storia, la destra sionista (che raramente superava il 20 o 25% dei voti, con un’estrema destra che non superava l’uno o il due per cento) arriva al primo posto alle elezioni. Questo slittamento a destra della società israeliana prosegue, con qualche controtendenza (1984, 1992) fino ad oggi, con una “sinistra” sionista sempre più debole e “centrista”, una destra sionista sempre più reazionaria ed un’estrema destra (religiosa o laica) sempre più forte (e al governo). I partiti antisionisti sono sempre intorno al 4 o 5% dell’elettorato, ed isolati. Analoga la radicalizzazione del nazionalismo palestinese e, ancor più, il sorgere di gruppi reazionari a base religiosa (come Hamas, la Jihad islamica, ecc.), a partire dai fallimentari Accordi di Oslo (1993). Se nel 1996 il boicottaggio della neonata Hamas permise a Fatah di ottenere i due terzi dei seggi, dieci anni dopo fu Hamas ad arrivare al primo posto (col 44% dei voti), mentre Fatah scese al 41% e le varie forze della sinistra, divise, che ottenevano circa il 10%. D’allora in poi la situazione è andata di male in peggio, fino al genocidio in atto in questi mesi. Con la prospettiva concreta della costruzione della “Grande Israele” ipernazionalista e ultra-sionista dal fiume al mare, tramite una “pulizia etnica” i cui esiti si possono intravedere tra le macerie di Gaza.
In Algeria, paese che ha notevoli affinità con la Palestina grazie al grande numero di coloni immigrati, il moderno movimento nazionalista contro il colonialismo francese nasce nel periodo della Prima Guerra Mondiale. Un primo gruppo, quello dei “Giovani algerini”, è autonomista e moderato, e ottiene un discreto successo tra il 1919 e il 1923, quando il suo leader, l’emiro Khaled, è costretto all’esilio. La corrente più radicale, indipendentista, nasce tra gli emigrati algerini in Francia: è la Stella Nordafricana, che ha contatti con la Terza Internazionale. Il suo fondatore, H. A. Abdelkader, è membro del PCF. Nonostante la repressione francese, che mette fuorilegge più volte il movimento tra il 1929 e il 1937 (“per attentato all’integrità della Francia”), il nazionalismo algerino continua la sua crescita. Nel 1937 viene fondato il PPA (Partito del Popolo Algerino), guidato da una figura carismatica come Messali Hadj, indipendentista e di sinistra, che verrà messo fuorilegge dai francesi nel 1939. In quegli stessi anni viene fondato il Partito Comunista Algerino (1936), presente soprattutto tra gli immigrati in Francia, che mantiene posizioni ambigue sulla questione dell’indipendenza algerina (anche perché costituito in parte da militanti francesi che vivono in Algeria), considerando l’Algeria una “nazione in formazione”. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale si svolgono grandi manifestazioni per l’indipendenza dell’Algeria, represse sanguinosamente dalle autorità coloniali. Nel 1946 nasce, come erede del PPA, il Movimento per il Trionfo delle Libertà Democratiche, che vince le elezioni amministrative del 1947, e che si batte per l’indipendenza dell’Algeria. La decisione del MTLD di lottare per “un’Algeria araba e musulmana” porta all’espulsione dei militanti berberi e francesi (1949-50), favorevoli ad un programma più laico e meno “etnico”. Nel 1954 una nuova crisi porta alla rottura del MTLD in tre correnti contrapposte. Da una di queste nascerà il Fronte di Liberazione Nazionale, con l’obiettivo di “un’Algeria sovrana, democratica e sociale, basata sui principi islamici“: il FLN, dopo aver creato l’Esercito Nazionale di Liberazione, scatenerà l’insurrezione che porterà alla guerra per l’indipendenza nel novembre del 1954. Tra il 1954 e il 1956 molti gruppi si uniscono al FLN. Tra questi gli islamisti e il Partito Comunista Algerino, che aveva nel frattempo sposato la causa indipendentista. Il MTLD di Messali crea invece un partito concorrente, il MNA (Movimento Nazionale Algerino), che sarà represso, oltre che dalle autorità coloniali, anche dal FLN (che l’accusa di tradimento). Nel 1962 l’Algeria diventa indipendente, e comincia un periodo di conflitti interni al FLN che durerà fino al 1965. La corrente “di sinistra”, capeggiata da Ahmed Ben Bella, ha una visione panarabista, “socialista” (anche grazie al ruolo del “consigliere” di Ben Bella, il dirigente della Quarta Internazionale Michel Pablo) e “terzomondista”, e stringe legami con Cuba, l’URSS, ecc. All’interno una politica di “nazionalizzazioni” dai toni socialisteggianti si coniuga con aspetti autoritari (come nella repressione dei movimenti berberofoni in Cabilia). Nel 1965 un colpo di stato, guidato da Houari Boumedienne (uno del capi militari del FLN), porta all’arresto di Ben Bella e all’eclissi dei pur contraddittori esperimenti “socialisti” e “terzomondisti” dei tre anni precedenti. Il nuovo regime, pur mantenendo alcuni aspetti simbolici e rituali del periodo rivoluzionario, normalizzerà l’Algeria, facendone uno dei tanti stati capitalisti arabi senza più alcuna velleità “rivoluzionaria”, né sul piano interno, né su quello internazionale.
All’estremo opposto del continente africano, abbiamo il Sudafrica. Qui i coloni europei (i boeri d’origine olandese, detti “afrikaner”) nel XIX secolo avevano fondato due repubbliche ultra-razziste, combattendo non solo contro i neri autoctoni, ma anche contro l’imperialismo britannico, reo ai loro occhi di aver abolito la schiavitù. L’Unione Sudafricana nasce nel 1910, su basi suprematiste bianche, anche se non sufficientemente razziste per la maggioranza degli Afrikaner. E due anni dopo nasce il South African Native National Congress, che si trasformerà nel 1923 nell’African National Congress (ANC), per difendere, seppur in modo moderato e non violento, i diritti dei neri, totalmente privi di diritti politici. I “bianchi” (boeri, britannici, ecc.) erano in quel momento il 21% della popolazione. Più o meno contemporaneamente nasce il Partito Comunista Sudafricano (SACP), il cui leader, William Andrews, è un sindacalista inglese immigrato in Sudafrica. Diversamente dal partito “fratello” palestinese, il SACP fin dai primi anni fu un partito “nero” al 90%, e mise nel suo programma la creazione di una “Repubblica nativa”, cioè nera. Pur non avendo molti militanti, il SACP riuscì ad influenzare l’ala sinistra dell’ANC, che nel 1927 prese il sopravvento e iniziò una stretta collaborazione con i comunisti. Tre anni dopo, però, l’ala destra, conservatrice e moderata, riprese in mano l’ANC, rompendo con il SACP e tornando alla politica di “pressione” (petizioni, attività solo legale, ecc.) verso le istituzioni “bianche”. Solo negli anni ’40, sulla base delle spinte più radicali dell’ala giovanile del partito (Mandela, Sisulu, Tambo, ecc.), l’ANC scelse la via della mobilitazione di massa (scioperi, manifestazioni, boicottaggi, ecc.), riallacciando i rapporti con i comunisti. La vittoria dei nazionalisti afrikaner alle elezioni del 1948 (limitate ai soli “bianchi”) portò ad un indurimento delle leggi razziste e all’istituzionalizzazione del regime dell’apartheid (rigida segregazione “razziale”). Di conseguenza crebbero le mobilitazioni di massa, guidate dall’ANC e dal SACP, represse con sempre maggiore violenza dal governo razzista, fino al famoso massacro di Sharpeville (una settantina di morti, assassinati dalla polizia), con conseguente messa fuorilegge dell’ANC. Il partito comunista era già stato reso illegale nel 1950, ed i suoi membri ancora in libertà erano entrati direttamente nell’ANC. In queste condizioni, la direzione dell’ANC si traferì fuori dal paese, e nel 1961 creò l’uMkhonto we Sizwe (Lancia della nazione) per dirigere la lotta armata contro il regime razzista. In realtà la guerriglia interna non fu particolarmente attiva fino al 1976, quando il massacro di Soweto (centinaia di morti, compresi molti bambini) spinse sempre più giovani neri sulla strada della rivolta, anche armata. Nel frattempo (1959) era stato fondato il Pan Africanist Congress (PAC), creato dall’ala panafricanista contraria al discorso ufficiale, “multirazziale”, dell’ANC, che si dotò di un’ala militare (APLA) dedita alla guerriglia a partire dal 1961. Il PAC, pur avendo un certo seguito, non riuscì mai a mettere in discussione l’egemonia dell’ANC tra la maggioranza dei neri. Nella seconda metà degli anni ’80 si fece strada nell’ANC la possibilità di una soluzione negoziata col governo “bianco” per porre fine al regime dell’apartheid. E, tra il 1990 (data della liberazione di Nelson Mandela, dopo 28 anni di prigione) e il 1994 (data delle prime libere elezioni, vinte dall’ANC col 62% dei voti), il regime dell’apartheid venne smantellato. Il compromesso tra il governo “bianco” e l’ANC portò ad un governo di “unità nazionale” tra ANC (in cui c’erano anche i comunisti), il Partito Nazionale (tradizionale partito dei razzisti afrikaner) e l’Inkhata (un partito “etnico” degli Zulu): i neri ebbero i diritti civili, ma non si parlò più di un Sudafrica socialista, com’era temuto dall’establishment “bianco” (e probabilmente sperato dalla base del potente SACP e da molti militanti dell’ANC).
Flavio Guidi
[continua]
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