[continuazione dell’articolo del 10 settembre].

Il caso dell’altro gigante asiatico, l’India è estremamente diverso da quello cinese. Nel subcontinente il movimento operaio socialista non raggiunse mai il radicamento sociale e politico che ebbe in Cina, pur essendo, almeno in alcune aree, tutt’altro che ininfluente. Nonostante la presenza di un intellettuale di prim’ordine come M. N. Roy, fondatore del Partito Comunista Indiano, proveniente dalle file del nazionalismo antibritannico dei primi del Novecento e in ottimi rapporti con Nehru ed altri esponenti del Congresso Nazionale Indiano (il principale partito nazionalista del subcontinente), fu sempre quest’ultimo ad avere l’egemonia sul movimento di “liberazione nazionale”. Dopo la fase ultramoderata dei primi decenni (non si chiedeva nemmeno l’indipendenza dalla Gran Bretagna), il Congresso, pur diviso tra un’ala moderata “autonomista” e un’ala più radicale (indipendentista e basata sull’identità induista), diventato ormai un movimento di massa, tende a radicalizzare la sua politica. Durante la prima guerra mondiale emerge la figura di quello che diverrà il suo leader carismatico, M. Gandhi, fautore dell’indipendenza, del coinvolgimento della minoranza musulmana, della non-violenza e contrario alla “lotta di classe” e al marxismo. Di fronte alla crescita delle mobilitazioni antibritanniche durante gli anni del dopoguerra (represse sanguinosamente dagli inglesi), nel 1929 viene adottata ufficialmente la posizione indipendentista. Nel 1934 il Congresso partecipa per la prima volta alle elezioni, vincendole, mentre continuano e si radicalizzano le manifestazioni contro il dominio britannico, che, nonostante alcune concessioni pseudo-liberali, continua ad usare la repressione (in particolare contro i comunisti, ma non solo), incarcerando i leader (come Roy o Gandhi) e varando leggi eccezionali (“contro l’anarchia e il terrorismo”). Allo scoppio della seconda guerra mondiale (con conseguente dichiarazione di guerra da parte dell’India britannica alla Germania) il Congresso entra in crisi: su suggerimento di Gandhi, vengono espulse tutte le correnti che si richiamano al socialismo, compresa quella di Subhas Chandra Bose, che, in nome di un “socialismo nazionale”, dopo aver tentato un approccio con Stalin a Mosca (inizi 1941), incontrerà Hitler e Himmler, creando la “Legione India Libera” per combattere i britannici. Nel 1943 darà vita ad un governo indiano in esilio (a Singapore) alleato al Giappone e alla Germania nazista, che poco dopo si sposterà, grazie all’occupazione giapponese delle Andamane, in territorio indiano, a Port Blair. Bose crea l’Esercito Nazionale Indiano, che parteciperà ai combattimenti dei giapponesi contro i britannici in Birmania e nel nordest dell’India. La sconfitta di Germania e Giappone ovviamente infrangerà il progetto di Bose, che muore in uno strano incidente aereo sui cieli di Taiwan il 18 agosto 1945. La sua figura, che oggi in India è popolarissima (statue, vie, piazze, ecc. dedicate a lui) è ritenuta da molti l’ispiratrice del partito di destra (il BJP), quello di Modi, attualmente al governo. L’ala del Congresso guidata da Gandhi, pur non appoggiando le posizioni di Bose, si dimise dal governo dell’India britannica, a cui partecipava con vari ministri fin dal 1937, per protestare contro la dichiarazione di guerra, e organizzò il boicottaggio dello sforzo bellico degli “Alleati”, suscitando la repressione britannica (migliaia di morti). Dopo la vittoria dei laburisti alle elezioni britanniche del 1945, che avevano nel programma l’indipendenza dell’India, la repressione si attenuò e i leader del movimento furono scarcerati. E nel 1947, dopo la separazione con il neonato stato islamico del Pakistan (separazione violenta che causò circa un milione di morti) l’Unione Indiana divenne indipendente, creando uno stato borghese più o meno democratico e “laico”, guidato per molti decenni dal Congresso, un partito neutralista legato, seppur debolmente, alla socialdemocrazia internazionale, fino all’avvento del governo di destra fondamentalista indù di Modi nell’ultimo decennio. E i comunisti indiani? Il loro ruolo in queste vicende è stato, come dicevo all’inizio, di relativamente scarsa influenza, nonostante i comunisti, fin dagli Venti, fossero tra i più acerrimi nemici del colonialismo britannico. La feroce repressione che colpì il partito negli anni Trenta contribuì, ovviamente, a ridurne la forza, ma i britannici ricorsero anche a forme meno brutali per tagliare l’erba sotto i piedi degli odiati “bolscevichi”. Un esempio: visto che la propaganda comunista stava avendo un discreto successo soprattutto tra la minoranza musulmana, le autorità britanniche convinsero le autorità religiose islamiche ad emanare una fatwa contro il comunismo. Comunque la politica del partito in quegli anni prevedeva, nonostante le riserve di M. N. Roy, l’appoggio a quella che veniva definita “alleanza operai-contadini-borghesia nazionale” (cioè l’appoggio di fatto al partito del Congresso). E, a partire dalla metà degli anni Trenta (con la significativa pausa nel 1939-1941 dovuta al patto Hitler-Stalin) la sostanziale subordinazione al partito di Gandhi non fu messa in discussione, anche dopo l’espulsione di tutti i comunisti dal Partito del Congresso. Partito che ripagò questo sostegno con la repressione della ribellione Telangana (una rivolta nata nel 1946 contro il sovrano dello stato di Hyderabad -formalmente “protettorato” e non possedimento britannico- una zona di notevole radicamento dei comunisti), rivolta contadina spontanea e appoggiata dal Partito Comunista a partire dall’ottobre 1947, che si estese a oltre 4 mila villaggi organizzati in “comuni” contadine nel 1948. Nel settembre del 1948 l’esercito indiano attaccò lo Stato di Hyderabad e lo annesse all’Unione Indiana, e subito dopo mise fuorilegge il Partito Comunista e schiacciò le comuni contadine, massacrando migliaia di contadini e militanti comunisti, fino alla resa definitiva nel 1951.

In Vietnam i movimenti nazionalisti antifrancesi ebbero un’impronta monarchica e filo-giapponese (dopo la vittoriosa guerra russo-giapponese del 1904/05) fino alla fondazione, nel 1927, di un movimento nazionalista repubblicano su modello del Kuomintang cinese. Negli stessi anni venivano create varie organizzazioni comuniste, alcune più “vietnamite”, altre più “indocinesi” (l’Indocina francese era composta da Vietnam, Cambogia e Laos). Poco dopo la rivolta nazionalista nel Tonchino (febbraio 1930), repressa ferocemente dai francesi, giunse in Vietnam, per unificare i vari partiti comunisti, l’inviato della Terza Internazionale, Ho Chi Minh (che viveva in Francia e poi in URSS da vent’anni) che portò alla fondazione del Partito Comunista Indocinese. Sia i nazionalisti che i comunisti furono duramente colpiti dalla repressione francese (molti leader vennero ghigliottinati) durante gli anni Trenta, portando ad un certo indebolimento di entrambe le organizzazioni. Solo con il governo del Fronte Popolare in Francia, nel 1936, si ha un alleggerimento della repressione. Sia i nazionalisti che i comunisti (il PCI di Ho Chi Minh e i trotskisti di Ta Thu Thau, alleatisi in funzione antimperialista) vennero legalizzati. Quando in Europa scoppia la guerra, però, tutte le organizzazioni comuniste vengono messe fuorilegge. Nel settembre 1940 i giapponesi invadono l’Indocina francese (controllata peraltro dai collaborazionisti di Vichy), proteggendo in qualche modo le forze nazionaliste antifrancesi a loro vicine (monarchici, caodaisti, ecc.), ma collaborando con le autorità “ufficiali” francesi nella repressione dei comunisti (come nella rivolta in Cocincina della fine del 1940). Nella primavera del 1941 il PCI fonda il Vietminh (un fronte “patriottico” guidato dai comunisti) che si allea con i nazionalisti anti-giapponesi sponsorizzati dal Kuomintang. Nel 1944 nasce nella Cina meridionale un “governo provvisorio vietnamita” che unisce comunisti e nazionalisti. Nel marzo del 1945 i giapponesi mettono fine alla collaborazione con i francesi (che nel frattempo erano diventati un po’ “gollisti”, dopo la liberazione della Francia nell’estate del 1944) e proclamano l’indipendenza di Vietnam (sotto l’imperatore Bao Dai), Cambogia e Laos. In agosto però il Vietminh prende il controllo, senza che i giapponesi oppongano resistenza, del Tonchino e del nord dell’Annam. L’imperatore Bao Dai propone al Vietminh un governo di unità nazionale, ma ottiene un rifiuto, portandolo all’abdicazione e alla consegna del potere nelle mani del Vietminh che, formando un governo di unità nazionale, proclama il 2 settembre 1945 la nascita della Repubblica Democratica del Vietnam. Nel frattempo (ottobre ’45) i francesi rientrano in Cocincina (zona di Saigon), cercando di ristabilire il dominio coloniale. Nel marzo del ’46, dopo accordi di compromesso con Ho Chi Minh, i francesi rientrano ad Hanoi (capitale di una repubblica non riconosciuta da nessuna potenza, nemmeno dall’URSS). Mentre gli incidenti tra francesi e vietnamiti si moltiplicano, Ho Chi Minh crea un nuovo fronte indipendentista allargato anche ai nazionalisti vicini al Kuomintang (Lien Viet), ma sostanzialmente egemonizzato dal PCI. Col bombardamento di Haiphong, nel novembre 1946, da parte dei francesi, inizia la guerra d’Indocina, che si concluderà nel 1954 col riconoscimento de facto della Repubblica Democratica del Vietnam (con capitale Hanoi) nel nord del paese, guidata da Ho Chi Minh, e di una Repubblica del Vietnam (con capitale Saigon) guidata dai nazionalisti di destra. L’impegno preso dai francesi e dai loro protetti “sudvietnamiti” di organizzare un referendum e delle libere elezioni entro il 1956 non verrà mai attuato. E una nuova fase della guerra del Vietnam, questa volta tra RDV e Vietcong da un lato, e USA e “nazionalisti” di destra dall’altro, nascerà all’inizio degli anni Sessanta, fino alla vittoria del fronte guidato dal Partito Comunista Vietnamita (non più “indocinese” da decenni) nel 1975, con la conseguente proclamazione della Repubblica Socialista del Vietnam.

In Indonesia, colonia olandese fino al 1949, il Partito Comunista (PKI), fondato nel 1920 e composto soprattutto da olandesi, si schierò da subito per l’indipendenza dall’Olanda, collaborando anche coi nazionalisti di Sarekat Islam (Associazione Islamica), in cui molti comunisti erano attivi. Dopo la rottura tra i comunisti (che crearono l’Associazione Islamica Rossa nel 1921, fusasi poi col PKI) e l’ala non marxista del Sarekat Islam, nacque l’Unione Islamica Indonesiana, nazionalista di sinistra, che confluì più tardi nel Partito Nazionale Indonesiano, fondato nel 1927 da Sukarno, su posizioni nazionaliste progressiste e laiche. Nel frattempo il PKI, le cui forze erano in grande sviluppo, soprattutto a Giava, lanciava un’insurrezione anticolonialista nel novembre del 1926, che fu però schiacciata dalla repressione olandese, con conseguente messa fuorilegge del PKI e indebolimento delle sue basi di massa. Nella seconda metà degli anni Trenta i rapporti tra il PKI e i nazionalisti di Sukarno non furono sempre idilliaci, ma nemmeno conflittuali, seguendo le direttive di Mosca sulla necessità della “tappa” di una rivoluzione “democratica” e anticoloniale che vedesse unite le varie classi sociali indonesiane. I rapporti si raffreddarono dopo l’invasione giapponese dell’Indonesia, alla fine del 1941, che vide i nazionalisti di Sukarno collaborare in funzione anti-occidentale con i nuovi occupanti, mentre il PKI appoggiava, dalla clandestinità, gli “Alleati”. Nella primavera del 1945 i giapponesi organizzarono, d’accordo coi nazionalisti, il processo che avrebbe portato all’indipendenza. Tra giugno ed agosto dello stesso anno, sotto la supervisione giapponese, venne varata la Costituzione indonesiana tuttora in vigore. La Repubblica Indonesiana venne proclamata il 17 agosto 1945, due settimane prima della resa definitiva del Giappone. Pochi mesi dopo però gli olandesi, appoggiati dai britannici, riprendevano il controllo di Giakarta ed iniziava una guerra anticoloniale, a cui parteciparono anche le unità guerrigliere del PKI, durata fino al riconoscimento dell’indipendenza indonesiana nel 1949. Ma la collaborazione tra comunisti e nazionalisti, che era da tempo piuttosto contrastata, fu interrotta dalla repressione della rivolta di Madiun, quando molte unità guerrigliere comuniste rifiutarono di sciogliersi e di consegnare le armi, in seguito al compromesso firmato tra nazionalisti e olandesi nel gennaio 1948. Migliaia di guerriglieri comunisti furono uccisi dall’esercito nazionalista, compreso il segretario del PKI Musso, e 36 mila furono imprigionati. Dopo l’indipendenza del 1949 il PKI, che crebbe rapidamente fino ad arrivare a 2 milioni di membri (il più forte partito comunista non al potere!) e al 16% dei voti, mantenne una linea di appoggio a Sukarno e al suo partito (che avevano fatto del paese uno dei leader dei “non allineati”). Un primo tentativo di stroncare il PKI avvenne col fallito colpo di stato militare nel 1958, represso dal governo di Sukarno. I rapporti tra Sukarno e il PKI divennero ancora più stretti dopo questo episodio, fino ad entrare nel governo nel 1962. La crescita dell’influenza del PKI (che raggiunse i 3 milioni di membri a metà decennio, e che controllava i sindacati) spinse i settori nazionalisti di destra ed islamisti, molto radicati tra i generali dell’esercito, che rimproveravano a Sukarno l’eccessiva tolleranza verso i comunisti, ad effettuare il colpo di stato militare dell’ottobre 1965 che portò al massacro di oltre 500 mila comunisti (o presunti tali) e alla distruzione di fatto del PKI.

Flavio Guidi

[continua]


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