La storia delle relazioni tra il socialismo marxista e le cosiddette lotte di liberazione “nazionale” è lunga e complicata, fin dai tempi dell’appoggio di Marx ed Engels ai feniani irlandesi, oltre un secolo e mezzo fa. Ma è soprattutto dopo la Rivoluzione d’Ottobre che il rapporto si è fatto sempre più stretto, soprattutto grazie al potere statale acquisito nella Russia dei Soviet (e poi URSS) e al processo di decolonizzazione novecentesco. Una relazione di sostegno e simpatia (che a volte si è trasformata in vero e proprio amore, raramente corrisposto) che non è certo stata esente da equivoci, rotture, voltafaccia (da entrambe le parti), ripensamenti più o meno tardivi. E che è stata spesso, soprattutto dagli anni ’30 in poi, influenzata da un atteggiamento che, usando un po’ a sproposito un termine attuale come “campismo”, ha avuto la tendenza a chiudere un occhio (a volte entrambi gli occhi) sul soggetto “liberatore” o presunto tale, in nome del principio che “il nemico del mio nemico è mio amico”. Cinica massima “machiavellica” che ha favorito addirittura (come nel 1939-41 con la Germania nazista e successivamente con gli “Alleati”) la chiusura dei due occhi non solo verso le forze nazionaliste dei “paesi oppressi”, ma, cancellando la famosa distinzione leniniana, persino verso le forze imperialiste del campo opposto a quello del “nemico” contingente. Proviamo a ricapitolare alcune tappe di questi “movimenti di liberazione nazionale”.

  1. Dopo la rivoluzione d’Ottobre, il nuovo governo dei Soviet decreta la libertà per “tutti i popoli oppressi dall’imperialismo zarista grande-russo” di staccarsi dall’ex impero, proclamando l’indipendenza. Nascono così le repubbliche finlandese, estone, lettone, lituana, polacca, bielorussa, ucraina, georgiana, armena e altre minori. In Finlandia, riconosciuta indipendente dalla Russia sovietica nel dicembre 1917, si scatena una guerra civile. I “bianchi”, nazionalisti e reazionari, appoggiati militarmente dalla Germania, vincono nel maggio del 1918, dopo oltre 35 mila morti. Di questi, oltre 20 mila sono i “rossi” giustiziati o morti in prigionia. In Estonia, dopo un breve governo bolscevico tra novembre e febbraio 1918, viene proclamata l’indipendenza da parte di un governo provvisorio, con l’appoggio delle armate tedesche che occupano il paese. Inizia la persecuzione dei “rossi” (i bolscevichi avevano ottenuto nelle regioni estoni il 35,5% dei voti all’Assemblea Costituente). Dopo l’ennesima guerra tra governo estone e Russia dei Soviet (1919), vinta dagli estoni, nel paese si afferma una brutale dittatura nazionalista e anticomunista. In Ucraina, dopo la rivoluzione di febbraio, mentre a Kharkiv e Kiev nascevano i Soviet, i nazionalisti ucraini davano vita alla Rada Centrale, una specie di governo provvisorio, che il 23 giugno 1917 proclamava l’autonomia (non ancora indipendenza). Dopo la rivoluzione d’Ottobre la Rada dichiara fedeltà a Kerensky e proclama la nascita della Repubblica Popolare Ucraina. Il 25 dicembre il Soviet di Kharkiv proclama la Repubblica Socialista Sovietica Ucraina. L’intervento dell’Armata Rossa a fianco del Soviet di Kharkiv e degli eserciti tedesco e austro-ungarico a fianco della Rada vede la sconfitta dei “rossi”, ma la Rada, ritenuta troppo progressista dagli occupanti austro-tedeschi, viene sostituita da un “Etmanato” guidato dall’ex ufficiale zarista Skoropadsky (28 aprile 1918), che attua una politica ultra-reazionaria, a favore dei latifondisti e antisemita. La sconfitta degli imperi centrali però porta alla dissoluzione dell’etmanato (che era stato riconosciuto, obtorto collo, anche dalla Russia dei Soviet) e all’instaurazione di un nuovo governo repubblicano a Kiev, il Direttorio, guidato da Petljura. Durante il 1919 l’Ucraina è in pieno caos: il governo di Petljura a Kiev, quello dei Soviet a Kharkiv, l’area guidata da Makhno nel sudest, con le Armate Bianche, la Polonia e le potenze dell’Intesa che cercano di impossessarsi dell’intero territorio dell’Ucraina ex russa, mentre nella parte ex asburgica nasceva la Repubblica Popolare dell’Ucraina Occidentale, ben presto distrutta dalle truppe polacche. Dopo la sconfitta dei “bianchi” ad opera dell’Armata Rossa guidata da Trotsky, il governo di Kiev si alleò alla Polonia per sconfiggere i “rossi”, ma venne sconfitto nel marzo 1921. L’Ucraina occidentale venne annessa dalla Polonia, mentre quella centro-orientale (esclusa la Crimea) divenne la Repubblica Socialista Sovietica Ucraina, con capitale Kiev. Alla fine del 1922 la RSSU aderì all’URSS, appena formata, su una base formalmente paritaria con Russia, Bielorussia, ecc.. La Polonia merita una menzione speciale, essendo stata per decenni al centro dell’attenzione dei rivoluzionari e dei democratici del XIX secolo, compresi Marx ed Engels, che la vedevano come l’eroica nemica dello zarismo russo (la “bestia nera” della reazione in Europa). Il movimento socialista polacco prima della guerra era diviso tra la componente marxista ed internazionalista, guidata da Rosa Luxemburg, scettica rispetto alla cosiddetta “autodeterminazione”, ed una populista e nazionalista, guidata da Pilsudski. Il riconoscimento da parte della Russia dei Soviet del diritto all’autodeterminazione della Polonia non ebbe alcun effetto pratico, visto che la ex Polonia russa era occupata dalle truppe tedesche ed austro-ungariche. Solo dopo la sconfitta di queste ultime la Polonia divenne uno stato sovrano (novembre 1918). I nazionalisti polacchi, in grande maggioranza, rivendicavano i confini della vecchia Confederazione Polacco-Lituana, scomparsa oltre un secolo prima, e che comprendeva territori a maggioranza tedesca, ucraina, bielorussa, lituana, ecc. Nel febbraio 1919, approfittando del caos ucraino e della guerra civile tra “bianchi” e “rossi” nella Russia dei Soviet, l’esercito polacco, comandato dal neo-maresciallo ed ex socialista Pilsudski invase la Bielorussia, l’Ucraina e Vilnius (città lituana governata dai Soviet), e occupando più o meno rapidamente questi territori, rifiutando tutte le proposte di pace avanzate dai bolscevichi, fino alla conquista di Minsk (agosto 1919) e la soppressione della Repubblica Socialista Bielorussa, e di Kiev (maggio 1920). La successiva controffensiva dell’Armata Rossa respinse i polacchi verso ovest, fino a Varsavia. Con la pace di Riga (marzo 1921) la Polonia ebbe riconosciute parte delle sue conquiste territoriali (Ucraina e Bielorussia occidentali, Vilnius e altri territori lituani), infischiandosene del diritto all’autodeterminazione della maggioranza non polacca.
  2. La Cina del 1914, pur non essendo una colonia, era sostanzialmente asservita agli imperialismi stranieri, in particolare giapponese, russo e britannico. Dopo la rivoluzione d’Ottobre, la nuova Russia dei Soviet rinunciò a tutti i privilegi (soprattutto in Manciuria) ereditati dallo zarismo. Nel 1919 si sviluppò un forte movimento nazionalista ed antimperialista (movimento del 4 maggio), in cui erano presenti esponenti del nascente movimento comunista (Chen Du Xiu). Nel settembre del ’19 viene rifondato, con l’aiuto dei sovietici, il Kuomintang, il partito nazionalista guidato da Sun Yat Sen. Nel 1921 viene fondato il Partito Comunista Cinese, guidato da Chen Du Xiu, che si sviluppa rapidamente tra gli operai delle città industriali (Shanghai, Canton, ecc.) e che sceglie una politica di alleanza col Kuomintang in funzione “antimperialista”. Questa alleanza si trasforma nel 1924-25 in un “Fronte Unito” che vede però egemone il Kuomintang, appoggiato da Mosca, che ritiene necessaria una “tappa” nazionale e democratica della rivoluzione cinese e chiede ai comunisti di subordinarsi al Kuomintang, cosa che, seppur tra molti malumori, avviene a partire dal 1925. La morte di Sun, nel marzo 1925, e l’ondata di scioperi del maggio dello stesso anno nella Cina meridionale in cui i comunisti svolgono un ruolo fondamentale portano al prevalere, all’interno del Kuomintang, dell’ala di centro, guidata dal generalissimo Chiang Kai Shek. Nel marzo 1926 avviene a Canton una prima, dura “epurazione” dei comunisti presenti nell’esercito, con centinaia di arresti. La crisi spinse l’ala sinistra della III Internazionale, guidata da Trotsky, a denunciare la subordinazione dei comunisti ai nazionalisti del Kuomintang, ma la maggioranza, intorno a Stalin e Bucharin, confermò in maggio l’appoggio sovietico a Chiang Kai Shek, invitando il partito cinese ad accettare le condizioni poste dal Kuomintang (tra le quali la consegna dei nominativi di tutti i membri del partito). Nel luglio del ’26 l’esercito “nazionale” (in cui c’erano anche i comunisti) iniziò la conquista delle regioni del nord, in balìa dei “signori della guerra”, avanzando rapidamente ed entrando a Shanghai (nel frattempo liberata da un’insurrezione operaia guidata dai comunisti). Pochi giorni dopo Chiang Kai Shek scatenò il “massacro di Shanghai”, in cui migliaia di operai e militanti del PCC vennero assassinati. La rottura tra comunisti e nazionalisti di Chiang Kai Shek era compiuta, ma la direzione Stalin-Bucharin, ancora convinta che la rivoluzione cinese dovesse limitarsi alla tappa “democratica” antimperialista e per l’unificazione nazionale, spinse il PCC ad appoggiare la cosiddetta ala sinistra del Kuomintang, che nel 1928 ruppe a sua volta coi comunisti, reprimendoli. Il PCC, ormai fuorilegge in tutta la Cina, perse il peso che precedentemente aveva tra gli operai delle città costiere, e si trasformò in pochi anni in un partito a base contadina, guidato, a partire dagli anni Trenta, da Mao Zedong. La tattica del “Fronte Unito” antimperialista, per la “liberazione nazionale”, risorse però, nonostante i continui scontri provocati dai nazionalisti, dopo l’invasione della Cina da parte dei giapponesi, in particolare a partire dal 1941, fino al 1945. Fu solo l’ostinato anticomunismo (insieme alla sottovalutazione della forza politica e militare del PCC) del Kuomintang, che attaccò frontalmente i comunisti dopo la fine della guerra anti-giapponese, a scatenare la seconda guerra civile cinese, vinta dal PCC nel 1949 con l’espulsione a Taiwan dei nazionalisti “antimperialisti” (e filo-USA!). Flavio Guidi

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