Ricordare le stragi fasciste all’ombra del governo Meloni

di Fabrizio Burattini

Il contesto di un governo a guida postfascista non è certo il migliore per ricordare quel che avvenne esattamente 50 anni fa a Brescia, a piazza della Loggia, dove una bomba neofascista esplose nel bel mezzo di una manifestazione sindacale uccidendo otto lavoratrici e lavoratori.

Quella strage si collocò in un momento estremamente difficile e complesso. La recentissima tragica conclusione, nel settembre dell’anno precedente, dell’esperienza cilena aveva spinto tante e tanti giovani militanti ad accantonare l’ottimismo e l’entusiasmo rivoluzionari che li avevano animati nel corso degli anni precedenti. Non si trattava ancora del “riflusso” che si manifestò solo qualche anno dopo, ma è certo che la sinistra era impegnata in una situazione di ripensamento. 

La direzione del PCI aveva saputo capitalizzare sul piano elettorale l’ascesa sociale ma, nel solco della politica del cosiddetto “arco costituzionale”, la stava indirizzando verso una prospettiva di “unità nazionale”. Il suo leader, ancora oggi tanto osannato, Enrico Berlinguer aveva elaborato, sull’onda del sanguinoso fallimento dell’esperienza dell’Unidad Popular di Salvador Allende, il progetto del “compromesso storico”.

La vicenda cilena era stata il primo significativo contraccolpo reazionario in risposta all’ondata democratica e sociale della fine degli anni Sessanta. La vittoria di Pinochet aveva rincuorato i reazionari di tutto il mondo e anche in Italia i primi mesi del 1974 erano stati contrassegnati da numerosi episodi di violenza fascista, che avevo ricordato anche con un articolo pubblicato (su anticapitalista.org) in occasione del 46° anniversario della strage di Brescia.

In quei mesi si svolgeva la campagna per il referendum popolare volto all’abrogazione del divorzio, di fronte al quale il paese si era diviso verticalmente tra reazionari e progressisti, con da un lato l’esplicita alleanza “antidivorzista” tra la DC di Amintore Fanfani e il Movimento Sociale Italiano di Giorgio Almirante (nella cui orbita si muoveva una costellazione di gruppuscoli apertamente neofascisti) e dall’altro il variegato schieramento che andava dai partiti laici liberali alla sinistra extraparlamentare. 

I risultati del referendum del 12 maggio (con la vittoria del No all’abrogazione con il 59,26% dei voti, a fronte di una partecipazione di oltre l’87% degli elettori) sconfessarono sonoramente la demagogia secondo cui nel paese ci sarebbe stata una “maggioranza silenziosa” contraria alla trasformazione civile, democratica e sociale per la quale si stavano battendo ampi movimenti di massa, i movimenti che avevano o avrebbero negli anni successivi imposto, oltre al divorzio, lo Statuto dei lavoratori, le nuove norme sulle pensioni, la fine delle gabbie salariali, una più efficace scala mobile delle retribuzioni, le 150 ore per la formazione, il nuovo diritto di famiglia, l’abolizione della censura, il diritto di aborto, l’eliminazione del “delitto d’onore”, la riforma sanitaria, ecc.

Ma naturalmente non fu una sconfitta elettorale a tacitare e paralizzare l’azione dei reazionari. E’ in questo contesto che scoppiò la bomba a piazza della Loggia.

I neofascisti erano in azione fin dal dopoguerra ed era evidente la loro diffusa presenza in alcuni corpi dello stato, in particolare in alcuni corpi repressivi: nei carabinieri, il cui comandante generale Giovanni de Lorenzo fu il protagonista nel 1964 di un tentativo di colpo di stato, seguito dai falliti golpe del 1970 dell’ex repubblichino Junio Valerio Borghese, e del 1974 dell’organizzazione “Rosa dei venti”, collegata a numerosi ambienti delle Forze armate, e poi le trame di Gladio e della loggia segreta P2, tutte portate avanti con solidi appoggi negli apparati dello stato. 

Negli anni Settanta, la voglia di rispondere all’ascesa democratica, politica e sociale del 1968-69 rianimò ulteriormente l’attivismo terroristico stragista dei neofascisti. 

Le prime loro azioni furono iniziative terroristiche accompagnate da montature per incolparne la sinistra più estrema, in particolare gli anarchici: la bomba al padiglione Fiat alla Fiera di Milano dell’aprile 1969, la bomba alla Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana sempre a Milano (17 morti, il 12 dicembre 1969), quella sui binari in Calabria dove era in corso una rivolta guidata dall’estrema destra (6 morti nel luglio 1970), quella a Peteano contro i carabinieri (3 morti nel maggio 1972), quella lanciata da Gianfranco Bertoli alla questura di Milano (4 morti nel maggio 1973). In alcune di queste occasioni il tentativo di incriminare gli anarchici inizialmente ebbe successo, anche grazie alle connivenze degli apparati statali e alla copertura di gran parte dei mass media, sempre pronti ad indicare l’efferatezza del “mostro anarchico”, ma le macchinazioni vennero rapidamente sbugiardate dalle indagini dalle controinchieste militanti e della stessa magistratura che ne rivelarono la matrice neofascista e le complicità degli apparati “di sicurezza”. 

Questa strategia terroristica (che venne definita la “strategia della tensione”) si perpetuò per oltre un altro decennio (agosto 1974, bomba sul treno Italicus, 12 morti; agosto 1980, bomba alla stazione di Bologna, 85 morti; dicembre 1984, bomba sul treno a San Benedetto Val di Sambro, 17 morti).

Questo solo per ricordare gli episodi più feroci e cruenti. Voglio qui ricordare anche l’incursione nel gennaio 1979 di Valerio Fioravanti alla guida di un manipolo dei “Nuclei armati rivoluzionari” nella sede di via dei Marsi, a Roma, condivisa tra i trotskisti romani dei GCR e la redazione di Radio Città Futura, che si concluse con tre compagne gravemente ferite a colpi di mitra, il corteo missino dell’aprile 1973 guidato dall’attuale presidente del Senato Ignazio La Russa durante il quale fu lanciata una bomba che uccise un poliziotto, gli omicidi di Claudio Varalli e di Giannino Zibecchi a Milano nell’aprile 1975 da parte di militanti neofascisti, ecc. 

Nel maggio 1974, a Brescia, i fascisti, con la loro bomba in piazza della Loggia, agirono direttamente ed esplicitamente contro il movimento sindacale e contro la sinistra, autoaccusandosi così esplicitamente del gesto sanguinoso.

La risposta di massa a quella strage fu grande. Molte sedi missine vennero devastate e chiuse dalle manifestazioni antifasciste (Milano, Roma, Napoli, Bologna, Genova, Bergamo, Perugia), ma gli apparati della Cgil e del PCI corsero ai ripari, tentando di isolare i settori più radicali e classiti dell’antifascismo, e colsero l’occasione per accelerare la loro iniziativa in direzione della costruzione di una “unità nazionale”, come ha ricordato dettagliatamente dieci anni fa Felice Mometti nel suo articolo in occasione del quarantennale, recentemente ripubblicato su bresciaanticapitalista.com.

Oggi, dopo i quasi 80 anni di plateale tradimento di tutte le promesse sociali, democratiche e progressiste della Costituzione repubblicana, dopo trent’anni di controrivoluzione neoliberale, dopo i ripetuti tentativi di “pacificazione nazionale”, dopo la distruzione di qualunque seppur contraddittoria forma di partecipazione popolare alla politica, dopo decenni di passività sindacale e di accettazione tacita o esplicita di tutte le peggiori controriforme, di smantellamento di tutte le conquiste imposte dai movimenti di massa, di acquiescenza nei confronti della devastante frammentazione sociale, la cultura antifascista rischia di ridursi ad un residuato storico, tanto che una larga parte dell’elettorato, perlomeno di chi si è voluto esprimere con il voto, ha espresso la propria preferenza per gli eredi diretti del fascismo. D’altra parte la legittimazione dei (post?)fascisti come forza di governo è stata imposta fin dal 1993-94 da Silvio Berlusconi, fino a trasformarli nel primo partito del paese.

Le responsabilità di quella che fu la sinistra italiana le abbiamo segnalate e illustrate a più riprese e non finiremo mai di ridenunciarle. Le pessime esperienze dei governi di centrosinistra e di quelli tecnici di questi ultimi anni hanno finito l’opera, vanificando, nell’occasione delle elezioni del 25 settembre 2022, anche gli inutili appelli al “voto antifascista” di Enrico Letta e del suo PD.

Oggi, la presidente del consiglio Giorgia Meloni, a chi le chiede notizie sul suo “antifascismo”, si trincera descrivendo l’antifascismo degli anni Settanta come responsabile della morte di alcuni neofascisti (Primavalle, Acca Larentia, ecc.) ma rimuove (con la complicità di un sistema informativo che asseconda questa comoda rimozione) il dato di fatto che quell’antifascismo fu la risposta alla sanguinaria aggressione dei gruppi neofascisti contro il movimento democratico e progressista degli anni Settanta.

L’antifascismo militante degli anni Sessanta e Settanta non fu una partita gladiatoria tra due fazioni contrapposte: fu sempre la risposta alle azioni criminali dei neofascisti, con un’ispirazione antifascista di massa che il movimento operaio e giovanile aveva non solo come orientamento politico, culturale e ideale, ma che aveva preso le mosse da atti criminali dei missini e degli altri gruppi neofascisti, come l’uccisione a Roma nell’aprile 1966 dello studente Paolo Rossi sulla scalinata della facoltà di Legge della Sapienza appunto ad opera di militanti del MSI.

In questo nuovo e inquietante contesto, la cultura e la mobilitazione antifasciste sono completamente da ricostruire e a questo scopo poco servono le rievocazioni resistenziali, se non si discostano da una sempre più vuota “unità antifascista” e se non acquistano un serio carattere di classe.