Nell’ottobre del 1923 46 dirigenti del Partito Comunista (bolscevico) russo indirizzano una dichiarazione al centro del partito. Tra i maggiori firmati della “Piattaforma dei 46” vi sono due ex segretari di partito come Preobrazhenskij e Serebrijakov, ci sono eroi dell’Ottobre rivoluzionario quali Antonov Ovseenko, Muralov, ci sono grandi figure del partito come Pjatakov, Rakovskij, Smirnov ecc. Trotsky non è tra i firmatari, ma nei fatti ne è l’ispiratore. In questa dichiarazione si critica il corso “di destra” imposto al partito dalla “trojka” Zinovev, Kamenev, Stalin. E si chiede soprattutto la fine del dominio della burocrazia e il ritorno della democrazia dei soviet del 1917-18. Non era la prima né l’unica opposizione interna alla deriva burocratica e reazionaria che diventerà poi lo “stalinismo” (basti pensare all’Opposizione Operaia di Shljapnikov-Kollontai di tre anni prima), ma fu l’unica che riscosse un seguito importante nel partito (soprattutto tra i giovani e gli operai) e nell’Internazionale e che avesse qualche possibilità (soprattutto dopo la rottura di Zinovev e Kamenev con Stalin) di impedire la controrivoluzione staliniana. La sconfitta di queste “possibilità”, nella seconda metà degli anni Venti, è la lontana origine del disastro in cui versa la sinistra (marxista o meno) nei paesi cosiddetti “ex-socialisti”, ma pure in Italia e nel resto del mondo. Per ricordare questa “nascita” (che fu definita “trotskismo”) mi permetto di ripubblicare quanto scrissi nell’agosto del 2020 per parlare del “mio trotskismo”. Una storia minore, pallido riflesso della Storia con la maiuscola.
Esattamente 80 anni fa, a Coyoacan (Città del Messico), un sicario di Stalin, il Bonaparte del Cremlino, assassinava Lev Davidovic Bronstein, detto Trotsky. Il fondatore dell’Armata Rossa, principale artefice, accanto a Lenin, della rivoluzione d’Ottobre, era da 11 anni in esilio, espulso dall’URSS (dopo essere stato espulso dal partito comunista e deportato in Asia Centrale nel 1927) per essersi opposto alla deriva reazionaria della “destra” del regime sovietico, capeggiata dal mancato prete georgiano Iosif Vissarionovic Giugasvili, detto Stalin. Non ho alcuna intenzione di parlare, in queste poche righe, del contributo di Trotsky al marxismo o della sua militanza rivoluzionaria in genere. Vorrei solo, molto più modestamente (sempre che interessi a qualcuno), parlare brevemente del “mio” Trotsky, cioè del mio rapporto con la sua figura e la sua azione politica.
Quando cominciai ad occuparmi attivamente di politica, nel lontano ottobre del 1969 (data del mio ingresso al Liceo) non avevo mai sentito parlare del rivoluzionario russo. Venivo da una famiglia operaia e comunista (mio padre era stato partigiano in Jugoslavia) e il mio rapporto con il comunismo era simile a quello che ha ogni ragazzino di 14 anni con la cultura nella quale è cresciuto: più che una scelta o un’adesione consapevole, un “marchio” di nascita. Per me i “buoni” erano i russi (anzi, i “sovietici”) e i “cattivi” gli americani. Krusciov che batte la scarpa sul tavolo all’ONU, piuttosto che Juri Gagarin che vola per primo nello spazio: questi erano punti di riferimento, per me. E Lumumba, Mao, Tito, Fidel….con Che Guevara che rappresentava il mio mito massimo. Quando era stato assassinato, due anni prima, avevo visto mio padre commuoversi ascoltando la notizia. E me ne aveva parlato come di un vero, grande comunista, con la C maiuscola, eroico, disinteressato, generoso. Insomma, per farla breve, avevo l’immaginario del “comunista italiano medio”. Stalin non c’era, come non c’era Trotsky. Ero, in un certo senso, un figlio del XX congresso (del PCUS) e dell’VIII congresso (del PCI), anche cronologicamente. Qualche incrinatura, nella mia precoce “fede” nella bontà dei “russi”, si era manifestata già nell’agosto del ’68, quando i carri armati con la stella rossa erano entrati a Praga. Ma a 13 anni non si può pretendere una seria riflessione politica. Nuvole passeggere, che per un attimo avevano oscurato il sol dell’avvenire. Nelle discussioni di allora con i miei compagni di classe “democristiani” (sembra incredibile, oggi, ma a 13 anni, allora, litigavamo per la politica) ricordo che, di fronte alle loro accuse, rispondevo parlando del Vietnam, dei bombardamenti, dei massacri, delle torture. Un perfetto “campista”, diremmo oggi. Ma torniamo all’ottobre del ’69. Entrando al Liceo, pensavo che mi sarei iscritto alla FGCI (i giovani del Partito Comunista Italiano). Non avevo idea del fatto che esistessero dei comunisti “più comunisti” del partito dei miei genitori (e nonni), l’unico che vedevo in televisione, il PCI di Longo. Ma, con mia sorpresa, alla prima assemblea studentesca, pochi giorni dopo, scoprii che esistevano dei “duri”, dei comunisti “veramente rivoluzionari”, che accusavano quelli della FGCI-PCI di essere dei moderati, dei socialdemocratici travestiti, ecc. ecc. Erano, secondo alcuni, i marxisti-leninisti, che qualcuno chiamava i “cinesi”, secondo altri quelli del potere operaio. E alla prima manifestazione decisi di andare con loro (non ricordo più se con i primi o coi secondi, visto che non c’erano ancora, almeno a Brescia, le organizzazioni ben delimitate con striscioni, bandiere, ecc.). Mi ritrovai così, quasi senza accorgermene, al di fuori della cerchia “picista” (come dicevano spregiativamente i militanti dei “gruppi” della sinistra extra-parlamentare, che si rifiutavano di considerare comunista il PCI). Fu in questi mesi che vidi apparire, in alcune manifestazioni, il ritratto di Stalin, inalberato, accanto a quello di Mao (e a volte di Lenin o Marx) dai “marxisti-leninisti” di “Servire il Popolo”. Il gruppo a cui avevo, quasi senza accorgermene, aderito, invece, non apprezzava né Mao né Stalin (avevo assistito, nei primi mesi del ’70, se non erro, alla rimozione del ritratto di Mao dalla sede di via Moretto, 63). Io non avevo le idee molto chiare, ovviamente. Ero entrato nel “Centro Lenin” (come si chiamava una delle scissioni del Potere Operaio di Brescia, che nulla aveva a che fare con Potere Operaio di Negri, Scalzone, ecc.) per caso, perché mi sembravano “preparati”, “intellettuali”, “seri”, mentre i maoisti di Servire il Popolo mi sembravano un po’ troppo folkloristici. Ma consideravo Mao come uno dei “nostri”, e quindi, visto che in Cina esponevano anche i ritratti di Stalin, anche il baffone mi sembrava uno dei nostri. Tanto più che gli “altri”, quelli del PCI, non usavano né i ritratti di Mao né quelli di Stalin. Insomma, una gran confusione, anche perché al Centro Lenin non capivo molto delle “lezioni di marxismo” del sabato pomeriggio. Comunque, di Trotsky nemmeno l’ombra. Il mio primo incontro col rivoluzionario di Janovka lo ebbi nell’estate del 1971, a Biberach, in Germania, quando conobbi il primo “trotskista” della mia vita. Mi mostrò un libro di Trotsky, in tedesco, con la foto di Lev Davidovic in copertina. Le nostre discussioni, in un inglese primitivo (almeno il mio) su Trotsky e Stalin, mi vedevano (me ne vergogno ancora oggi) difendere il georgiano (non so neppure perché, o almeno non ne ricordo i particolari). Fu nel ’72, quando entrai in Avanguardia Operaia, che la figura di Trotsky cominciò ad acquisire per me contorni un po’ più precisi, seppur in modo ancora estremamente confuso. E fu un approccio piuttosto singolare. Fu durante una manifestazione, nell’autunno del ’72, per il Vietnam. Io stavo con quelli di AO (da almeno un anno i cortei vedevano susseguirsi gli “spezzoni” dei vari gruppi, con striscioni e bandiere), con in mano la bandiera del GRP-FLN, quando fummo aggrediti da un gruppo di militanti del PCI e del Movimento Studentesco di Capanna, che ci urlavano “Fuori i trotskisti dal corteo”. Scoprii quindi di essere diventato, almeno per gli “stalinisti”, un trotskista (pur non avendo la più pallida idea di qual era il pensiero di Trotsky). Il nostro leader locale, Orazio Longo, su richiesta di noi novellini, ci spiegò in una “scuola quadri”, cos’era il trotskismo e perché AO NON ERA trotskista, nonostante le accuse degli stalinisti di PCI, MS, ecc. Ci disse che il “trotskismo” era una versione militarista ed estremista del leninismo (a cui si rifaceva AO), così come il “guevarismo” era una versione ultramilitarista del trotskismo. Sentendomi profondamente “guevarista”, cominciai a provare interesse, quindi, per questo fantomatico “trotskismo”. In realtà fu, nei primi tempi, un interesse poco coltivato. Dopo essermi letto per tre anni un sacco di libri di Marx, di Engels, di Lenin (capendoci abbastanza poco, ad esser sincero), a 17 anni preferivo di gran lunga le manifestazioni, le assemblee tumultuose, gli scontri con fascisti e polizia, agli approfondimenti teorici. Ogni tanto qualche “scazzo” fisico con gli “stalinisti” del PCI, del MS, ecc. mi “ricordava” che per loro ero un “trotskista”, e cominciai a sentirmi quasi fiero di questo appellativo: in fin dei conti voleva dire che ero un “estremista”, un “duro”, rispetto ai “mollaccioni” moderati stalinisti (picisti o maoisti era più o meno lo stesso, per me). Il 12 maggio del ’73, a Milano, alla manifestazione internazionale per il Vietnam, vidi per la prima volta i “trotskisti” veri, quelli della Quarta Internazionale. Non tanto gli italiani, non molto numerosi, quanto i francesi della mitica Ligue Communiste di Krivine, protagonisti (non da soli, ovviamente) del famoso maggio 1968. Furono aggrediti dai maoisti di Servire il Popolo (PCML), ma respinsero agevolmente al mittente l’aggressione. Urlavano “C’est ne qu’un debout, continuons le combat“, avevano centinaia di bandiere rosse con la falce e il martello neri e il Quattro incrociati e ritratti di Trotsky. Mi avevano colpito molto e, pur senza averne chiare le motivazioni, mi piacevano. Nell’anno successivo due film colpirono la mia immaginazione, dando un’ulteriore, piccola spinta, al mio progressivo avvicinamento al cosiddetto trotskismo. Uno era “L’Assassinio di Trotsky” di Joseph Losey e l’altro Sweet Movie, di Dushan Makevev. Senza aver (ancora) letto nulla di lui, cominciai a sentirmi sempre più attirato dalla sua figura. Nel ’75 viaggio in Portogallo, in piena crisi “rivoluzionaria”: migliaia di “turisti della rivoluzione” affollavano Lisbona, nell’estate di quell’anno. Tra questi molti erano delle varie sezioni della Quarta Internazionale (francesi in testa, ça va s‘en dire) a portare solidarietà ai compagni portoghesi. Io, militante di AO, mi sentivo in un certo senso un po’ orfano: loro avevano “sezioni” in ogni paese, organizzazioni “sorelle” (tra cui gli spagnoli della mitica ETA-VI, fusisi con la LCR da poco) mentre noi, pur essendo in Italia ben più forti dei Gruppi Comunisti Rivoluzionari (così si chiamava la sezione italiana della Quarta) eravamo in un certo senso dei “provinciali”, privi di una dimensione autenticamente internazionalista. Tornai dal Portogallo ancor più “freddo” nei confronti di AO e sempre più attirato dal “trotskismo”. Anche perché AO aveva intrapreso un cammino di avvicinamento al PdUP-Manifesto (che a me sembrava un’organizzazione ben poco rivoluzionaria, una specie di PCI in sedicesimo), mentre i trotskisti, insieme a Lotta Continua, mi sembravano ben più radicali. Nel frattempo era nato anche a Brescia un piccolo gruppo trotskista, il Gruppo Marxista Rivoluzionario, che proprio nel ’75 aveva aderito alla Quarta Internazionale. Cominciai quindi a leggere Trotsky (Storia della Rivoluzione Russa, La Mia Vita, La Rivoluzione Tradita, ecc.) e, tra la fine del ’75 e gli inizi del ’76, abbandonai AO per aderire, pochi mesi dopo, ai GCR. E d’allora in poi ho continuato il percorso di quella corrente politica che ancor oggi si a chiamare Quarta Internazionale, richiamandosi (non da sola) a quella fondata da Trotsky nel settembre del 1938. Certo, il mio “trotskismo” di oggi è molto diverso da quello degli anni Settanta ed Ottanta. Molta acqua è passata sotto i ponti, da Managua a Praga, da Mosca a Pechino, da Porto Alegre a Genova, dal Chiapas al Rojava. Il “mio” Trotsky di oggi assomiglia sempre meno alla caricatura del “bolscevico d’acciaio” che mi affascinava a 20 anni. Varie figure lo hanno “contaminato” col passare degli anni, a cominciare da Rosa Luxemburg, e poi di molti anarchici e libertari (che non avevano tutti i torti nel criticare il fondatore dell’Armata Rossa), Camillo Berneri in primis. Resta intatto il mio affetto per colui che più di chiunque altro (e ce ne furono moltissimi, per fortuna), nonostante gli inevitabili errori (ed anche di quelli evitabili) si batté coraggiosamente fino in fondo per impedire che la bandiera del comunismo fosse trascinata nel fango dall’orribile dittatura stalinista, pagando con la vita la sua coerenza rivoluzionaria. Il fascino del “perdente”? Forse. Un’utopia, un sogno? Forse. Sempre meglio dei vostri incubi, padroni e burocrati di tutto il mondo.
Flavio Guidi
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