Da 11 giorni sciopero nazionale del tessile. 150 fabbriche chiuse a tempo indeterminato dai padroni, 11mila operaie denunciate, almeno quattro morti. Saccheggi e proteste hanno paralizzato il settore, protagonista di una trasformazione sociale che ha portato enormi benefici al Bangladesh ma anche sfruttamento selvaggio delle lavoratrici da parte dei padroni locali e dell’industria dei grandi marchi dell’abbigliamento. Per adesso il risultato è uno sciopero a tempo indeterminato che aggiunge incertezza alle elezioni in programma nel gennaio prossimo in questa ex-colonia britannica che è l’ottavo Paese più popoloso del mondo, la terza maggiore nazione islamica e la seconda più forte economia dell’Asia meridionale.

La prima ministra del Bangladesh, Sheikh Hasina, ha rifiutato di concedere ulteriori aumenti salariali dopo le proteste dei lavoratori e delle lavoratrici delle fabbriche tessili che hanno chiesto quasi il triplo del salario scontrandosi nei giorni scorsi anche con la polizia.

Il 7 novembre un comitato nominato dal governo ha aumentato gli stipendi a 12.500 taka (106 euro) ma le operaie ne chiedevano almeno 23mila (195 euro). Anche le organizzazioni di difesa dei lavoratori hanno definito il nuovo salario un “salario di povertà”. 

I padroni della città industriale di Ashulia, a nord della capitale Dhaka, hanno chiuso 130 fabbriche per timore di altri scioperi. “I produttori hanno invocato la sezione 13/1 delle leggi sul lavoro”, ha detto all’AFP Sarwar Alam, capo della polizia locale.

Ashulia ospita alcune delle più grandi fabbriche del Bangladesh, alcune delle quali impiegano fino a 15mila  lavoratori in un unico stabilimento a più piani. Due giorni fa le forze dell’ordine hanno utilizzato anche proiettili di gomma e gas lacrimogeni contro le lavoratrici in sciopero. Anche a Gazipur, il più grande polo industriale del Paese, almeno 20 fabbriche sono state chiuse a causa delle proteste sul salario minimo, che secondo i commentatori sono state le più grandi da oltre un decennio. 

di Gianni Sartori

Le proteste dei lavoratori del tessile in Bangladesh sono ricorrenti per cui non è il caso di stabilire quale sia stato l’inizio dell’ultima fase, abbastanza radicale da forare il muro dell’informazione.

Considerando soltanto gli ultimi quindici giorni va ricordato che nella mattinata del 30 ottobre gli operai di alcune aziende di Gazipur, Ashulia e Savar (ma le lotte si erano presto estese ad altre località) avevano protestato vigorosamente con manifestazioni, picchetti e anche bloccando l’autostrada.

Da tempo i lavoratori (in maggioranza donne) chiedono un aumento: il triplo dell’attuale salario mensile minimo di 8300 takas (70 euro). Con la richiesta di arrivare a 23mila takas (190 euro) indispensabili per affrontare l’aumento del costo della vita.

Fatalmente erano scoppiati duri scontri tra i manifestanti e le forze dell’ordine. Le cariche si intensificavano nel pomeriggio con ampio uso di manganelli e gas lacrimogeni.

Nel corso degli incidenti un lavoratore di un’azienda del gruppo Energy Pack (Rasel Hawlader) rimaneva a terra cadavere per un colpo di arma da fuoco. Il fatto non poteva che infiammare ulteriormente la protesta. Gli operai in lotta, dopo aver incendiato un furgone della polizia, avevano forzato l’ingresso della Jamuma Fashion e di qualche altra azienda. Compiendo all’interno azioni di sabotaggio e devastazione. In particolare la fabbrica di confezioni ABM di Konabari veniva data alle fiamme risultando completamente distrutta.

Altri scontri si registravano nella prima settimana di novembre nella città di Ashulia (a ovest di Dacca) quando circa diecimila operai hanno tentato di impedire la ripresa del lavoro nel corso di uno sciopero di massa che aveva coinvolto oltre seicento aziende. I manifestanti, oltre a scagliare pietre e mattoni sulla polizia che sparava proiettili di plastica, tentavano di bloccare le strade.

Tra i feriti più gravi, una donna di 35 anni colpita al volto durante la protesta che si svolgeva a Sreepur (una sessantina di chilometri da Dacca).

Le aziende coinvolte nello sciopero erano centinaia, comprese alcune delle più grandi del Paese (Gap, Walmart, H&M, Zara, Bestseller, Levi’s, Marks and Spencer, Primark, Aldi…).

Per sopire le proteste gli industriali avevano garantito un congruo aumento dei salari entro una settimana. Aumento che alla prova dei fatti risulterà comunque inconsistente (se non addirittura “ridicolo” stando ad alcune fonti sindacali).

Secondo soltanto alla Cina, il Bangladesh al momento risulta essere uno dei maggiori esportatori nel campo dell’abbigliamento. Con oltre 3500 aziende e quasi quattro milioni di lavoratori, in maggioranza donne.

Ancora lanci di gas lacrimogeni e di pallottole di plastica il 9 novembre contro gli operai che a migliaia manifestavano per l’inconsistenza dei previsti aumenti. Da parte dei sindacati inoltre venivano denunciati arresti e intimidazioni.

Il 7 novembre il comitato del salario minimo aveva fornito i dati dell’aumento salariale per circa quattro milioni di lavoratori del tessile. Si trattava del 56,25% del salario mensile di base, per cui si arrivava a 12.500 takas (104 euro). Cifra giudicata irrilevante di fronte all’aumento del costo della vita e quindi rigettata da lavoratori e sindacati.

Tra le maggiori proteste, quella di Gazipur dove venivano nuovamente bloccate alcune strade. Venivano erette barricate, poi date alle fiamme e lanciate pietre contro le forze dell’ordine. Anche nella periferia nord di Dacca migliaia di operai erano usciti dalle fabbriche di Ashulia e scesi nelle strade per protestare. Un esponete della Federazione indipendente degli operai dell’abbigliamento del Bangladesh, Mohammad Jewel, veniva arrestato e tre operai (quelli finora accertati) perdevano la vita nel corso della protesta.

di Stefano Vecchia da Avvenire

Non si ferma la mobilitazione dei lavoratori del comparto dell’abbigliamento in Bangladesh e ieri, con la morte di un’operaia, il numero delle vittime del duro scontro con la polizia che dura da undici giorni è salito a quattro. Nei nuovi tafferugli che hanno interessato aree densamente abitate anche da immigrati attratti dalla possibilità di lavoro nelle manifatture, si sono registrati anche numerosi feriti. Tuttavia, coscienti anche dell’avvicinarsi delle elezioni politiche di gennaio, i sindacati dei lavoratori del settore, il principale tra quelli dedicati all’esportazione e il secondo dopo quello agricolo per valore complessivo (il 16%) del Pil annuo del Paese, hanno rifiutato un aumento del 56% del salario minimo proposto martedì dalla delegazione governativa. Sicuramente un miglioramento consistente e il primo dopo cinque anni che avrebbe portato il salario mensile dagli attuali 8.000 taka, equivalenti a meno di 70 euro a 12.500 taka, ma ancora molto lontano dalla richiesta di 23mila taka avanzata dalle rappresentanze dei lavoratori. L’aumento chiesto dai leader delle proteste iniziate 11 giorni fa in concomitanza con una massiccia manifestazione delle opposizioni, dispersa con la forza, è motivato dall’incremento del costo della vita nel Paese e dagli ingenti guadagni delle multinazionali che producono in Bangladesh, lucrando sui bassi compensi corrisposti agli operai.

Il dialogo sembra difficile e a dimostrarlo è anche il dispiegamento di una cinquantina di plotoni dei temuti paramilitari della Guardia di frontiera nelle principali aree produttive (Ashulia, Mirpur, Savar e altre) che circondano la capitale Dacca.

Mentre decine di migliaia di lavoratori sono scesi nelle strade, spesso bloccando la circolazione delle principali arterie, centinaia di aziende hanno sospeso la produzione per mancanza di maestranze oppure per il timore di danneggiamenti e roghi dopo le devastazioni dei primi giorni.

Come in passato, la situazione rischia di degenerare. Se i sindacati hanno qualche carta in più per mettere sotto pressione il governo guidato da Sheikh Hasina Wazed, la premier – la cui Awami League controlla il Parlamento uscente con 303 seggi su 350 – ha di fatto annullato ogni possibilità di azione anche pubblica sia per il principale antagonista politico, il Jatiya Party, sia a maggior ragione per il Partito nazionalista del Bangladesh guidato dall’arcirivale Khaleda Zia, sia per i partiti d’ispirazione religiosa islamica – e soprattutto non ha alcuna intenzione di cedere terreno alle opposizioni.

Sul piano internazionale i buoni rapporti instaurati dall’amministrazione con Cina, India e Russia, al contrario, non risentono del piglio autoritario con cui la premier governa il Paese, mentre eventuali posizioni critiche di Stati Uniti e Europa, peraltro già espresse, non rappresentano una leva sufficiente a partire dalla constatazione che eventuali azioni sanzionatorie punirebbero prima di tutti proprio gli oltre quattro milioni di lavoratori dell’abbigliamento e accessori attivi in 4.000 aziende di diverse dimensioni che riforniscono di prodotti finiti grandi brand internazionali tra cui American Eagle, Gap, H&M, Zara, Walmart.

Sul piano economico, d’altra parte, proteste prolungate a partire da un settore produttivo strategico, potrebbero inquietare gli investitori e avere conseguenze sulla crescita del Paese (il 7,1 per cento nel 2022), tra le più consistenti degli ultimi anni per quanto riguarda il continente asiatico.

Resta il fatto che proprio la crescita, sostenuta solo in parte dall’adeguamento di risorse pubbliche, welfare e salari adeguati, ha anzitutto proiettato verso l’alto i prezzi di alloggi, trasporti, alimentari e combustibili (complessivamente lo scorso anno del 10,8%), accentuando le disuguaglianze di possibilità e reddito. L’inflazione che a ottobre ha sfiorato il 10% contribuisce a erodere le capacità di spesa delle famiglie. Una situazione insostenibile che ha messo in difficoltà anche la classe media urbana e molti che, inurbati dalle campagne bengalesi attratti dalle possibilità di lavoro, non riescono a garantirsi redditi adeguati alla nuova situazione.