ZIMBABWE, BURKINA FASO, Rd C, MAROCCO, MALI, NAMIBIA, SUDAFRICA… 

ALLE TRADIZIONALI RISORSE MINERARIE DEL CONTINENTE AFRICANO (ORO, ARGENTO, DIAMANTI, RAME, MANGANESE…) SI SONO AGGIUNTI COLTAN, COBALTO, GRAFITE, LITIO… 

E PER LE GRANDI COMPAGNIE GLI AFFARI VANNO A GONFIE VELE PREANNUNCIANDO FUTURI CONFLITTI 

Gianni Sartori 

Se, come recitava negli anni settanta la rivista “Hérodote” (di cui conservo gelosamente due-tre numeri dell’edizione italiana pubblicata da Bertani) : “la geografia serve a fare la guerra”, parafrasando possiamo aggiungere che “la geologia la determina”. 

O quantomeno la indirizza e alimenta. 

Per cui volendo azzardare ipotesi sui futuri conflitti sarebbe opportuno munirsi di aggiornate carte minerarie.

Da parte mia, il vago rimpianto di non aver completato gli studi di Geologia (in quel di Padova) spinto, all’epoca, non da preveggenza politica, ma più semplicemente dalla passione per la speleologia. Anche se poi, da studente-lavoratore, dovevo scoprire l’incompatibilità tra i laboratori pomeridiani (obbligatori) e i turni notturni alla Domenichelli. Verifica fatta di persona ogni qual volta mi appisolavo, in piedi, appoggiato al carrello di carico-scarico dai camion.

Per cui devo onestamente riconoscere che di mineralogia, carotaggi ed estrattivismo non ne capisco molto. Ma proverò comunque a orientarmi tra alcune recenti news sulle miniera africane. 

Litio, cobalto, stagno, rame, grafite, nickel etc risultano indispensabili per quella fantomatica “transizione energetica” (dove l’unico verde identificabile sembra quello dei dollari, quelli di una volta almeno) a cui tendono in maniera talvolta spasmodica compagnie minerarie e produttori di automobili. Con il continente africano che al momento sembra essere quello più ambito.

Convinti, soprattutto le compagnie minerarie e alcuni governi (africani e non) che molte risorse minerarie dell’Africa finora siano state non adeguatamente sfruttate (qualcuno dice: “trascurate”). Ora evidentemente intendono rimediare a tale dimenticanza riattivando antiche miniere e aprendone di nuove (e pazienza per l’ambiente e le popolazioni indigene, ovviamente). 

ZIMBABWE E LITIO, DA ADESSO IN POI TUTTA UN’ALTRA STORIA

Se ne era già parlato in termini di progetto, ma adesso arriva anche la conferma ufficiale.

Lo Zimbabwe non intende più esportare il litio allo stato grezzo, ma lavorarselo in proprio.

Riepiloghiamo.

L’ex Rhodesia, oggi Zimbabwe, tra i paesi africani è al terzo posto per le vaste riserve di Lithium. Nel senso di “litio”, il minerale (simbolo Li, numero atomico 3, peso atomico 6,94; nessun riferimento ai Nirvana quindi) essenziale per le batterie dei veicoli elettrici. 

E se questo “oro bianco” (il cui prezzo in soli dieci anni è cresciuto del 1.100%) ha da tempo attirato le brame delle grandi compagnie minerarie, finora aveva mobilitato soprattutto schiere di minatori individuali (“artigianali”). Sui quali tuttavia vanno calando le pesanti restrizioni imposte da Ministero delle miniere e dello sviluppo. In pratica non si potrà più esportare il materiale grezzo. Quello che i piccoli minatori estraevano da terreni e da miniere abbandonati quasi mai di loro proprietà. 

Invece le restrizioni previste non colpiranno le miniere di livello industriale che potranno (e dovranno presumo) esportare solo materiale trattato, un “concentrato di litio”. Grazie a impianti comunque ancora in fase di realizzazione (tra le operative quella di Bikita). Infatti il governo di Harare è intenzionato a promuovere aziende locali per la trasformazione in loco del minerale, rendendolo utilizzabile direttamente dall’industria dei veicoli elettrici.Risale al novembre 2022 un accordo firmato con la TsingShan Holding per un impianto in grado di produrre il concentrato di litio. 

Una vera “rivoluzione del mercato interno”,un cambio epocale per l’economia del Paese (anche nella prospettiva della creazione di posti di lavoro).

Finora il materiale grezzo finiva in genere nelle mani di compagnie straniere (cinesi, ma non solo). Le perdite per le casse dello Stato, stando alle stime del Ministero si aggirano attorno ai due miliardi di euro. Anche a causa del consistente contrabbando (in buona parte per opera dei minatori-artigiani) verso il Sudafrica e gli Emirati Arabi.

Qualcosa del genere, il tentativo di svincolarsi dalle multinazionali, potrebbe accadere in Namibia. Il Paese africano infatti ha interrotto le esplorazioni di uranio affidate da circa tre anni a One Uranium (legata all’agenzia russa Rosatom). Anche per la mancanza di garanzie in materia di rischi ambientali (in particolare l’inquinamento delle falde acquifere).

SUDAFRICA: MEGLIO IL LITIO DEL CARBONE?

DIPENDE…

Dal 2023 (stando a una recente dichiarazione) la Compagnia mineraria Marula Mining (All Star Minerals) darà il via alla vendita di litio a una filiale della lussemburghese Traxys. Quanto alla provenienza del minerale, sarebbe la miniera di Blesberg, in disuso da tempo e riaperta nel dicembre 2022. Anche se per ora i lavori proseguono lentamente e su piccola scala, in attesa di ulteriori perforazioni e carotaggi.

Oltre al litio (sotto forma di spodumene che qui lo contiene con percentuali tra il 6 e il 7 %), la miniera sarebbe in grado di fornire anche tantalio.

Ma in materia di miniere non son tutte rose e fiori per il Sudafrica. Le miniere abbandonate di carbone, per esempio, rappresentano – oltre che una potenziale fonte di pericolo – una documentata fonte di inquinamento per le sorgenti e le falde acquifere, una grave minaccia per la salute delle popolazioni. O almeno questo è quanto sostiene Human Rights Watch in un suo recente rapporto (The Forever Mines : Perpetual Rights Risks from Unrehabilitated Coal Mines in Mpumalanga, South Africa ) con cui accusa il governo sudafricano di non garantire la bonifica, il risanamento delle miniere abbandonate. Di non aver fatto nulla per contrastare tale “eredità tossica”. 

E ovviamente vengono messe sotto accusa anche le compagnie minerarie che per anni hanno tratto profitti dallo sfruttamento del carbone, ignorando però le proprie responsabilità al momento di ripulire, bonificare il degrado, l’inquinamento che si sono lasciate alle spalle”.

Lasciando sovente alle comunità locali l’onere di rimediare ai danni.

Alla realizzazione del dossier di Human Rights Watch hanno contribuito decine di esponenti delle comunità locali (compresi i genitori di numerosi bambini che hanno perso la vita precipitando in pozzi a cielo aperto), rappresentanti di associazioni locali e di Ong, ricercatori universitari e personale sanitario. E anche molti “minatori individuali” o che operavano comunque a livello artigianale, al di fuori delle compagnie minerarie. In genere tra i residui di quelle abbandonate con gravi conseguenze per la salute. Come ha ben documentato Human Rights Watch riportando oltre 300 decessi di questi “zama – zama”. Deceduti in gran parte per il crollo dei tunnel, per intossicazione da gas o incidenti con esplosivi. Inevitabile un raffronto con i garimpeiros di Brasile e dintorni o con i minatori (in genera persone anziane o giovanissime) che scavavano (scavano?) tra i residui, gli scarti delle miniere boliviane.

Su circa 2300 (duemilatrecento) miniere prese in esame e classificate “ad alto rischio” (tra cui sono centinaia quelle di carbone), soltanto 27 sono state bonificate in Sudafrica. Si tratta di quelle da cui si ricavava l’amianto (in genere “amianto nero”, più nocivo, ma meno costoso da estrarre e che ha distrutto la salute di migliaia e migliaia di minatori neri).

Specificatamente per quelle di carbone, si è potuto documentare come i residui minerari esposti alle intemperie contribuiscano ad aumentare notevolmente l’acidità dell’acqua e dei terreni. Il fenomeno conosciuto come ”drenaggio minerario acido” provoca sia l’inquinamento delle acque che la sterilizzazione dei terreni, oltre a corrodere e danneggiare irreparabilmente le infrastrutture di approvvigionamento dell’acqua potabile.

LA COMPAGNIA MAROCCHINA MANAGEM FARA’ AFFARI D’ORO (letteralmente)

Novità rilevanti anche dal Marocco con l’ormai centenaria compagnia Managem sempre più “leader regionale” (ma con aspirazioni evidentemente “continentali”) nell’industria mineraria africana. Da circa vent’anni va ampliando il suo raggio d’intervento in Sudan (oro), Gabon, RdC (sarà mica per il coltan?) e Guinea (ancora per l’oro).

Verso la fine di dicembre il direttore generale di Managem ha annunciato di aver sottoscritto un accordo (una transazione dal valore di circa 280 milioni di dollari) con la canadese Iamgold Corporation per acquisire la proprietà di alcuni progetti di estrazione aurifera in Mali (progetto Diakha-Siribaya), Senegal (progetti Boto, Boto ovest, Daorala, Senala ovest) e Guinea (progetto Karita).

Con la dichiarata intenzione di aumentare la propria produzione di oro dato che finora si era posizionata ben lontana dai livelli di produzione di compagnie maggiori come Iamgold, Endeavoure, B2Gold e Kinross Gold.

IL MALI VERSO LIBERALIZZAZIONE DEL SETTORE

Mentre il regime militare del Mali annunciava la creazione di una compagnia mineraria nazionale, quasi contemporaneamente (ai primi di dicembre), dal ministero delle Miniere arrivava un comunicato con cui si apriva la strada a significative liberalizzazioni in materia di “permessi di esplorazione e permessi di sfruttamento minerario”.

Con ogni probabilità, viste le recenti difficoltà incontrate nel settore, lo Stato ritiene così di attrarre investimenti stranieri nello sfruttamento delle risorse minerarie.

Ma non tutti esultano, ovviamente. Per esempio i portavoce di un Consiglio locale della zona aurifera di Kenieba (regione di Kayes, dove già sono attive una mezza dozzina di società minerarie) hanno protestato vigorosamente in quanto “prima di concedere i permessi di esplorazione e di sfruttamento, si deve consultare la popolazione”. Per “valutare l’impatto ambientale” e sapendo che “verranno espropriate terre coltivabili per cui alla popolazione si dovrà quantomeno offrire delle adeguate compensazioni”.

Per la cronaca: attualmente tra i minerali estratti in Mali, l’oro rappresenta il 10% del PIL e circa l’80% delle esportazioni.

STERILI POLEMICHE SUL BURKINA FASO 

Da segnalare anche la polemica (strumentale?) scatenata dal presidente del Ghana Nana Akufo-Addo mentre si trovava (guarda caso) a Washington. Accusando il Burkina Faso di aver ceduto alla compagnia russa Wagner una miniera d’oro a pagamento dell’intervento militare contro l’insorgenza jihadista. 

Notizia immediatamente smentita da Simon Pierre Boussim, ministro di Energia, Miniere e Cave, durante una conferenza stampa (20 dicembre), organizzata con l’ITIE-Burkina (Comitato per la Trasparenza nelle Industrie Estrattive) nella capitale Ouagadougou dell’ex Alto Volta. 

In realtà in Burkina Faso esiste già una presenza russa in campo minerario (si parla di tre miniere sfruttate da Nordgold). Ma qui operativa da oltre dieci anni. 

LA ZLECA SI VA ESPANDENDO?

Risaliva a tre anni fa l’annuncio da parte di Albert Muchanga (commissario allo Sviluppo economico, al commercio, all’industria e all’attività minerarie dell’Unione africana) di consultazioni amichevoli tra due delle maggiori entità minerarie dell’Africa, il Congo e lo Zambia. Nzioni nei cui territori sono sepolte ingenti quantità di minerali fondamentali per la produzione delle batterie per li veicoli elettrici e che ora, in base ai futuri accordi, dovrebbero poterle produrre autonomamente e direttamente.

Non certo casualmente per esporre i progressi di tale progetto Muchanga aveva scelto l’occasione di Mining Indaba, il maggior meeting del settore minerario africano.

Fondamentale, ricordo, era stato l’anno scorso il ruolo di Muchanga nel veder ratificare l’Accordo sulla Zona di libero-scambio continentale africano (ZLECA).

E GLI USA?

Gli Stati Uniti non stanno a guardare naturalmente. E’ da poco stato firmato da Washington un accordo (un memorandum d’intesa) con la Rd C e con lo Zambia (con i maggiori giacimenti di cobalto e rame) sui metalli per le batterie.

Nell’accordo è previsto un investimento da 55 miliardi di dollari nel giro di tre anni. 

Fondi elargiti dalla Minerals Security Partnership (vi aderiscono Corea del Sud, Canada, Australia, Regno Unito, Giappone, il Regno Unito…) a sostegno dei sistemi sanitari, per la tutela del lavoro femminile, nella lotta ai cambiamenti climatici…

Ma anche, o soprattutto, per investire nei progetti per le auto elettriche.

Allo scopo dichiarato di contrastare l’egemonia cinese (visto che Pechino, a titolo di esempio, controlla già gran parte delle miniere di cobalto nella Rd C).

Come ha preannunciato il segretario di Stato Antony Blinken:

“Washington esplorerà meccanismi di finanziamento e di sostegno agli investimenti nelle catene africane dei veicoli elettrici”.

In pratica verranno finanziate sia le estrazioni minerarie che la lavorazione dei metalli estratti (raffinerie e affini). Oltre alle operazioni di riciclaggio. Alla vasta operazione partecipano alcune case automobilistiche (General Motors, Ford, Tesla…) e le compagnie minerarie Albemarle e Piedmont Lithium.

ENNESIMO ECOCIDIO NELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO

Suscita preoccupazione questo ulteriore coinvolgimento della Rd C in progetti estrattivi di rilevanza internazionale.

Sia per la drammatica situazione in cui versano le popolazioni del Nord-est del paese (sotto accusa l’estrazione del coltan e le milizie di M23 sostenute dal Ruanda), sia per il già bistrattato ecosistema naturale. Ca va sans dire, soprattutto nelle zone sottoposte a estrazioni petrolifere e minerarie e alla deforestazione. Anche per diretta responsabilità del governo congolese che “svende le foreste che dovrebbe proteggere” (come denunciava un portavoce di Greenpeace).

Governo e ministri sotto accusa non soltanto da parte dei “soliti” ambientalisti, ma anche da associazioni di studiosi e scienziati. Come il Consiglio per la difesa ambientale attraverso la legalità e la tracciabilità (Codelt) e l’Acedh (una Ong regionale) che hanno condotto studi approfonditi sulla foresta pluviale della Cuvette Centrale (provincia di Ituri, sotto stretto controllo militare dal maggio del 2021). Dove appunto si estrae gas, petrolio e oro. Sarebbero soprattutto le miniere aurifere, in continua espansione anche nelle aree protette, a contaminare, distruggere gli ultimi lembi di foresta pluviale dove sopravvive un mammifero raro (da “Lista rossa”), a rischio estinzione, come l’okapi. Oltre ad abbattere le piante e dragare illegalmente i fiumi, i minatori si dedicherebbero al bracconaggio.

Da quasi un decennio l’area viene sfruttata – previo accordo col governo – dalla compagnia Kimia Mining. L’anno scorso ben 205 ong locali, a cui si associava Greenpeace, avevano chiesto al governo della Rd C di ritirare le concessioni minerarie alla società cinese. O almeno quelle all’interno della riserva naturale per le okapi.

D’altra parte per l’Africa (con una perdita annua di quattro milioni di ettari di forte) questo è “mal comune” (ma senza “gaudio” ovviamente). Dagli atti recentemente pubblicati dalla National Academy of Sciences, l’aumento esponenziale delle attività estrattive in aree forestali costituisce il 47% (oltre tremila e duecento chilometri quadrati) della distruzione delle foreste tropicali dal 2000 a oggi. Soprattutto in Ghana, Tanzania, Zimbabwe e Costa d’Avorio.

Gianni Sartori

Pubblicità