Come Pechino sta ridisegnando l’Industria 4.0 globale e perché India e Vietnam faticano a sfuggire alla sua orbita tecnologica.
La Cina non è più soltanto un grande attore manifatturiero: è diventata il perno centrale della nuova rivoluzione industriale. Quella che viene definita Industria 4.0 non è più un orizzonte teorico, ma un terreno di competizione già in corso, dove Pechino detta il passo integrando automazione avanzata, robotica, sistemi ciber-fisici, sensori intelligenti, Internet delle cose, reti 5G e logistica digitale in un unico ecosistema produttivo.
Nel frattempo, l’Industria 4.0 si sta rivelando per quello che è realmente: una corsa per stabilire le fondamenta tecniche della produzione globale del futuro. Al centro di tutto c’è la fusione tra tecnologia operativa e tecnologia informatica. I robot non si limitano più a eseguire compiti ripetitivi, ma apprendono; le fabbriche non si limitano a produrre, ma si auto-regolano; le catene di approvvigionamento vengono coordinate in tempo reale attraverso piattaforme digitali industriali.
La Cina è all’avanguardia in questo processo. Nella produzione di elettronica di consumo e veicoli elettrici ha introdotto su larga scala le cosiddette “fabbriche oscure”: impianti completamente automatizzati, attivi 24 ore su 24, dove l’intervento umano è ridotto al minimo. In questi stabilimenti l’intelligenza artificiale governa ogni fase, dalla lavorazione al controllo qualità.
Dopo aver conquistato un ruolo centrale come manifattura globale, Pechino sta ora puntando a un salto di qualità: trasformarsi nell’architetto delle piattaforme industriali mondiali. L’obiettivo è fissare gli standard che regolano il dialogo tra macchine, la circolazione dei dati, i protocolli di sicurezza e l’interconnessione tra stabilimenti produttivi.
Questo scenario non è più futuristico. Xiaomi, ad esempio, ha realizzato un impianto completamente autonomo capace di assemblare uno smartphone ogni tre secondi, senza supervisione umana. Foxconn, noto per la produzione di dispositivi Apple, ha introdotto in Cina linee produttive totalmente automatizzate che hanno incrementato l’efficienza e abbattuto i costi. Nel settore dei veicoli elettrici e dei semiconduttori, i grandi gruppi cinesi stanno investendo somme enormi in impianti ad altissimo livello di automazione per soddisfare una domanda globale in crescita.
Parallelamente, si gioca una partita decisiva sul terreno degli standard. Nel biennio 2024–2025, soggetti cinesi hanno presentato circa un terzo delle principali proposte di standardizzazione globale presso gli organismi internazionali. Non si tratta di dettagli tecnici: gli standard determinano chi controlla l’intero ecosistema industriale, oggi e per i decenni a venire.
Se la Cina riuscirà a imporre le proprie regole su interoperabilità, comunicazione macchina-macchina e intelligenza artificiale industriale, avrà un’influenza strutturale sull’organizzazione della produzione globale.
Un altro dato chiave è che, nonostante gli investimenti iniziali sull’automazione siano elevati, il risparmio sulla manodopera nelle fabbriche completamente automatizzate arriva a riduzioni dell’80–92% del lavoro diretto. Lo stabilimento Xiaomi di Changping, ad esempio, dichiara una riduzione superiore al 90%.
Questo processo sta progressivamente annullando il vantaggio competitivo dei Paesi che basano la loro attrattività industriale sull’offerta di manodopera a basso prezzo.
Il caso dell’India
Partiamo dall’India. Secondo Asia Times, la questione non è stabilire se la Cina guiderà questa trasformazione industriale: lo sta già facendo. Il vero interrogativo riguarda piuttosto l’impatto che questa leadership avrà sul percorso di sviluppo indiano, sulla sua capacità industriale e, soprattutto, sulla sua autonomia digitale. Oggi una parte consistente dell’apparato manifatturiero indiano dipende in modo strutturale da tecnologie, componenti e soluzioni provenienti dalla Cina.
Il vantaggio accumulato da Pechino appare difficile da colmare, ma Nuova Delhi non parte da zero. Il Paese può contare su competenze software di alto livello, su una macchina amministrativa capace di sperimentare e su un approccio regolatorio pragmatico, riassumibile nella logica “prima si prova, poi si regolamenta”. L’India punta inoltre su architetture aperte, cercando di combinare tecnologie cinesi, occidentali e domestiche in un unico sistema flessibile.
Per l’India la situazione è complessa. Senza automazione, il Paese non può industrializzarsi a un livello competitivo. La produttività del lavoro nei settori strategici è stimata attorno a un quinto di quella cinese, e solo una minoranza delle imprese indiane utilizza anche forme basilari di automazione, contro una diffusione molto più ampia in Cina. Un modello di export fondato esclusivamente sull’alta intensità di manodopera non è sostenibile nel medio periodo.
Nonostante le narrative sul “disaccoppiamento”, l’industria elettronica indiana continua a dipendere in modo critico dalla filiera cinese. Gli stabilimenti Foxconn in India che assemblano iPhone nell’ambito dei programmi di incentivazione pubblica si riforniscono, in larga parte, dagli stessi fornitori cinesi che alimentano gli impianti Foxconn di Zhengzhou.
Questa interdipendenza non si limita all’hardware. BYD collabora con aziende indiane nel settore degli autobus elettrici, mentre Tata Motors e altri produttori locali si affidano ampiamente a tecnologia cinese per batterie, elettronica di potenza, motori e software. La Cina controlla l’intera catena del valore dei veicoli elettrici.
Lo stesso vale per l’elettronica di consumo: molti dispositivi etichettati come “Made in India” incorporano componenti, display, processori e moduli provenienti dalla Cina. Nel 2024, circa il 70% delle importazioni indiane di elettronica aveva origine cinese. Esistono inoltre dipendenze meno visibili: moduli software per la visione artificiale, macchinari industriali importati tramite Paesi terzi, soluzioni di automazione integrate silenziosamente nei sistemi locali.
Cina e India condividono la consapevolezza dell’importanza strategica dell’Industria 4.0, ma adottano approcci profondamente diversi. Per Pechino si tratta di un progetto nazionale di modernizzazione industriale, diretto e pianificato. Per Nuova Delhi è soprattutto uno strumento di sviluppo economico, produttività e integrazione nelle catene globali del valore.
L’India privilegia una strategia decentralizzata e aperta, basata su incentivi piuttosto che su campioni nazionali. Il quadro normativo è leggero: sandbox regolatori, standard volontari, forte investimento in infrastrutture digitali pubbliche.
La scommessa è che l’eccellenza indiana nel software e una regolamentazione flessibile consentano al Paese di conquistare il livello più alto della catena del valore: quello dell’intelligenza industriale, dell’ottimizzazione algoritmica, della sicurezza e della manutenzione predittiva, anche continuando a importare gran parte dell’hardware.
In questo contesto si inseriscono piattaforme pubbliche aperte come Aadhaar e UPI (il sistema di pagamento istantaneo e in tempo reale dell’India), che funzionano come vere infrastrutture digitali su cui imprese, startup e istituzioni possono costruire applicazioni industriali. Questi sistemi permettono autenticazione istantanea, pagamenti in tempo reale lungo la supply chain e persino transazioni machine-to-machine basate su IoT.
L’intelligenza artificiale sarà il cuore operativo dell’Industria 4.0. La Cina sta sviluppando modelli fondamentali proprietari, integrandoli direttamente nei propri ecosistemi industriali attraverso una forte integrazione verticale: sensori, hardware, software e modelli avanzati sotto un unico controllo. Questo approccio consente soluzioni più economiche, più rapide e già testate su scala enorme.
L’India, al contrario, punta a diventare un grande integratore di sistemi e un fornitore di intelligenza applicativa, offrendo un’alternativa agli ecosistemi industriali chiusi. Molte nuove fabbriche indiane adottano stack ibridi: hardware cinese a livello fisico, con software e intelligenza sviluppati localmente o in collaborazione con partner occidentali.
La regolazione indiana favorisce esplicitamente la compatibilità multi-fornitore e scoraggia la dipendenza da sistemi chiusi. L’obiettivo è controllare i flussi di dati e l’orchestrazione finale, anche se il ferro e il silicio continueranno spesso ad arrivare dalla Cina.
Guardando avanti, è probabile che emerga un modello stratificato: hardware cinese alla base, intelligenza indiana e occidentale ai livelli superiori, con forte competizione nel mezzo. Ma il tempo a disposizione è limitato. Se entro pochi anni l’India non riuscirà a sviluppare middleware e modelli industriali propri, anche le fabbriche più diversificate rischieranno di scivolare gradualmente, quasi senza accorgersene, negli ecosistemi software cinesi, che oggi offrono già un costo totale inferiore di oltre un quarto rispetto alle alternative aperte o occidentali.
Il caso del Vietnam
Malgrado le pressioni costanti esercitate da Washington, Hanoi ha scelto una traiettoria diversa, rafforzando in modo progressivo il proprio rapporto con Pechino. Un’analisi pubblicata da Reuters evidenzia come la politica tariffaria statunitense abbia finito per spingere il Vietnam ad avvicinarsi ulteriormente alla Cina sul piano economico e commerciale. L’aumento degli investimenti cinesi nel Paese sta trasformando in profondità il tessuto industriale vietnamita, ampliando al tempo stesso il peso economico e tecnologico di Pechino.
Secondo Reuters, gli Stati Uniti hanno più volte sollecitato il Vietnam a ridurre la dipendenza da componenti e tecnologie cinesi. Tuttavia, le statistiche ufficiali vietnamite raccontano una realtà opposta: tra gennaio e novembre di quest’anno, le importazioni dalla Cina hanno raggiunto circa 168 miliardi di dollari, segnando una crescita annua prossima al 30% e superando già il record dell’intero 2024. Una quota significativa – quasi un terzo – riguarda componenti elettronici, che vengono assemblati in Vietnam e successivamente esportati verso il mercato statunitense.
Parallelamente, le imprese cinesi stanno aumentando la loro presenza diretta nel mercato vietnamita, entrando in competizione con i principali operatori locali. Dati riservati sulle immatricolazioni, consultati da Reuters, indicano che nei primi dieci mesi dell’anno il produttore cinese di veicoli elettrici Yadea ha venduto oltre 36.000 mezzi in Vietnam, conquistando il quarto posto nel mercato. Sebbene VinFast resti il leader indiscusso del settore, Yadea si è rapidamente affermata come il suo concorrente più dinamico.
Il progressivo abbandono delle motociclette a benzina, insieme alle restrizioni introdotte ad Hanoi e in altre grandi città, sta inoltre ridimensionando la posizione storicamente dominante dei produttori giapponesi Honda e Yamaha, che stanno perdendo terreno nel mercato vietnamita.
Anche il settore della distribuzione al dettaglio sta vivendo cambiamenti significativi. Nelle principali aree urbane del Paese, come Hanoi e Ho Chi Minh City, si moltiplicano le aperture di marchi cinesi, tra cui KKV. Dalla fine del 2024 uno degli sviluppi più rilevanti del mercato retail locale è stato proprio l’ingresso e la rapida espansione di catene commerciali cinesi.
Sul fronte digitale, TikTok, controllata da ByteDance, sia diventata la principale piattaforma di social commerce in Vietnam. Allo stesso tempo, Lazada – parte del gruppo Alibaba – figura tra i siti di e-commerce più utilizzati nel Paese, mentre Tencent ha partecipazioni indirette in due grandi operatori locali della vendita online, Shopee e Tiki.
Per quanto riguarda gli investimenti industriali, le joint venture tra aziende cinesi e partner vietnamiti sono in forte aumento. In diversi casi, le imprese cinesi forniscono anche supporto tecnico diretto. Il Vietnam-China Business Council rileva come un numero maggiore di aziende cinesi hanno già trasferito o prevedono di trasferire tecnologia a controparti vietnamite nel corso di quest’anno, un fatto che non si era verificato l’anno precedente.
Secondo il rapporto, la disponibilità delle aziende cinesi a condividere tecnologia è tradizionalmente molto limitata. Tuttavia, dati di settore e fonti interne indicano un cambiamento di approccio: il Vietnam non viene più visto soltanto come una piattaforma di assemblaggio a basso costo, ma anche come un mercato di consumo con un potenziale crescente.
Il mese scorso, Reuters ha inoltre rivelato che Huawei e ZTE si sono aggiudicate diversi contratti per la fornitura di apparecchiature 5G in Vietnam nel corso dell’anno. Per lungo tempo, Hanoi era stata considerata riluttante a utilizzare tecnologia cinese in infrastrutture strategiche, ma il miglioramento delle relazioni bilaterali ha progressivamente aperto la strada all’ingresso delle aziende tecnologiche cinesi.
I dati ufficiali vietnamiti mostrano che, nei primi undici mesi dell’anno, imprese della Cina continentale e di Hong Kong hanno promesso investimenti per circa 6,7 miliardi di dollari, diventando il principale bacino di investitori esteri del Paese.
Ad agosto, To Lam – segretario generale del Partito Comunista del Vietnam e presidente della Repubblica – ha compiuto una visita di Stato in Cina. In quell’occasione, uno dei temi centrali è stato il rafforzamento dei collegamenti ferroviari tra i due Paesi. Già ad aprile era stato ufficialmente avviato il meccanismo di cooperazione ferroviaria sino-vietnamita.
Nel 2019 le aziende cinesi rappresentavano solo il 10% delle imprese presenti nel parco, mentre oggi la quota è salita a circa il 25%. Per anni Hanoi ha mantenuto un atteggiamento prudente nei confronti della tecnologia cinese, anche a causa delle pressioni occidentali. Tuttavia, il Vietnam segue innanzitutto i propri interessi strategici e i recenti accordi potrebbero favorire una maggiore integrazione economica con la Cina.
Reuters ricorda che in passato il Vietnam aveva mostrato esitazioni su progetti come le ferrovie transfrontaliere e la creazione di zone economiche speciali vicino al confine cinese, citando presunti rischi per la sicurezza. Negli ultimi mesi, tuttavia, Hanoi e Pechino hanno compiuto passi concreti in avanti su entrambi i fronti.
La decisione degli Stati Uniti di imporre dazi del 20% sui prodotti vietnamiti ha contribuito in modo diretto a spingere Hanoi verso una maggiore cooperazione con la Cina. Il malcontento dei funzionari vietnamiti nei confronti delle misure punitive statunitensi ha rafforzato la volontà di riequilibrare i rapporti economici in direzione di Pechino.
L’approfondimento dei legami con la Cina funziona per il Vietnam sia come strumento di protezione sia come leva di crescita. La varietà e l’ampiezza dei progetti cinesi stanno ormai ridefinendo in modo strutturale l’assetto industriale del Paese.
Messi insieme, i casi di India e Vietnam mostrano una tendenza che va oltre le singole scelte nazionali. L’Industria 4.0 non sta ridisegnando solo le fabbriche, ma l’intera geografia del potere industriale globale. La Cina non si limita più a produrre: costruisce ecosistemi, stabilisce standard, integra hardware, software e intelligenza artificiale in un’unica architettura coerente. Ed è proprio questo livello sistemico a rendere difficile, per molti Paesi, “scegliere” davvero.
India e Vietnam tentano strategie diverse, ma entrambe si muovono all’interno di un campo già strutturato dalla leadership tecnologica cinese. Anche quando cercano di diversificare, lo fanno spesso su fondamenta materiali, logistiche o digitali che restano profondamente intrecciate con Pechino. Non per ideologia, ma per convenienza, costi, tempi e scala.
Il punto, quindi, non è se il mondo riuscirà a “disaccoppiarsi” dalla Cina. Il punto è capire chi controllerà i livelli superiori dell’Industria 4.0: i flussi di dati, il software, gli standard, l’intelligenza che governa le macchine. La rivoluzione industriale digitale non è un evento futuro: è già in corso. E chi arriva tardi, rischia di dover seguire regole scritte altrove.
da: https://dazibao.substack.com/p/il-modello-industriale-cinese-rischia
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