di Daniel Blatman, da Haaretz

Gli israeliani ricorrono a una classica tattica di negazione del genocidio: quella che consiste nel minimizzare le atrocità con i numeri. Qualsiasi riferimento alla sofferenza dei palestinesi è considerato una minaccia per l’immagine e la sopravvivenza della nazione.

Da oltre un secolo, la Turchia porta avanti una politica di negazione del genocidio armeno perpetrato dall’Impero ottomano tra il 1915 e il 1918. I meccanismi alla base di questa negazione sono evidenti in molti ambiti, tra cui la diplomazia, le pubblicazioni accademiche, la comunicazione con l’opinione pubblica internazionale e il controllo esercitato sul mondo accademico. L’obiettivo è quello di impedire l’uso del termine “genocidio” per descrivere le azioni della Turchia e promuovere una narrazione alternativa, che presenta la deportazione e il massacro degli armeni come misure rese necessarie da una minaccia alla sicurezza interna, e non come il risultato di una politica deliberata di sterminio. La negazione è al centro dell’identità nazionale della Turchia moderna. I governi che si sono succeduti ad Ankara hanno presentato i massacri come una risposta legittima a una rivolta armata, affermando che questi eventi erano parte di una guerra civile in cui hanno perso la vita sia armeni che turchi, e non di un genocidio.

Oscurare i fatti e seminare dubbi sul numero delle vittime è una strategia comunemente utilizzata in tutte le politiche di negazione. Gli studiosi concordano ampiamente nel ritenere che circa 1,2 milioni di armeni siano stati uccisi o siano morti. La versione turca afferma tuttavia che le cifre sono nettamente inferiori, circa 350.000, e che molti sono morti per malattia, durante scontri con tribù locali o nelle difficoltà del viaggio, piuttosto che in seguito a espliciti ordini di sterminio. Mettere in dubbio la credibilità delle fonti armene e occidentali, ad esempio attraverso i rapporti dei funzionari consolari americani, dei missionari e del clero, serve a nascondere la responsabilità politica dei leader ottomani, che hanno intrapreso la distruzione di un intero gruppo etnico.

Anche la negazione dell’Olocausto ha sviluppato i propri meccanismi dopo la seconda guerra mondiale, anche se rimane un fenomeno distinto dalla negazione del genocidio armeno.

Nel 1980, Robert Faurisson, professore di letteratura all’Università di Lione, pubblicò un libro intitolato “Memoria in difesa contro coloro che continuano ad accusarmi di falsificare la storia”. In esso affermava che lo sterminio di massa con il gas non poteva aver avuto luogo nel campo di Auschwitz-Birkenau. Basandosi su calcoli apparentemente scientifici, Faurisson sosteneva che le testimonianze dei sopravvissuti e i documenti storici fossero stati fabbricati. Affermava che le dimensioni e la capacità delle camere a gas non potevano consentire di uccidere così tante vittime contemporaneamente. Affermava inoltre che il tempo necessario affinché il gas Zyklon B facesse effetto era troppo lungo per causare la morte delle vittime in pochi minuti, contrariamente a quanto dichiarato da numerosi testimoni. Inoltre, Faurisson sosteneva che il trasporto e la cremazione di centinaia di cadaveri in così poco tempo avrebbero richiesto risorse che i nazisti semplicemente non avevano.

Le affermazioni di Faurisson sono state completamente confutate da storici, ingegneri, chimici e altri esperti. È un esempio lampante di come il genocidio possa essere privato del suo contesto storico con calcoli manipolatori e pseudoscientifici. Come è noto, le vittime dei campi venivano ammassate nelle camere a gas. I sistemi di ventilazione e cremazione erano appositamente progettati per lo scopo di queste camere, consentendo un uso intensivo e una rapida rimozione dei corpi.

Faurisson ha sistematicamente ignorato i documenti tedeschi, le fotografie aeree, i progetti architettonici dei forni crematori, le testimonianze delle guardie dei campi e, al contrario, i numerosi racconti dei sopravvissuti e i risultati degli scavi archeologici. I suoi calcoli pseudo-scientifici sono diventati un esempio tipico della tattica negazionista: presentare affermazioni vaghe, apparentemente scientifiche, ponendo domande che ignorano deliberatamente il contesto storico dell’evento.

Una tendenza altrettanto pericolosa si sta delineando in Israele riguardo agli orribili crimini commessi nella Striscia di Gaza. Nel giugno 2024, il dottor Lee Mordechai, storico dell’Università Ebraica di Gerusalemme, ha pubblicato un rapporto intitolato “Testimonianza sulla guerra Israele-Gaza”, che da allora è stato aggiornato più volte in risposta all’evoluzione della situazione, l’ultima volta nel luglio 2025.

Questo documento fornisce un resoconto metodico e dettagliato delle azioni condotte da Israele a Gaza, comprese quelle che potrebbero costituire crimini di guerra e persino, potenzialmente, un genocidio. Si basa su testimonianze oculari, immagini satellitari, video, rapporti di organizzazioni internazionali e numerose testimonianze di soldati e civili israeliani sul campo. Descrive l’uccisione di palestinesi disarmati, i ripetuti attacchi ai campi profughi, gli attacchi mirati contro persone in cerca di cure mediche, l’organizzazione deliberata della fame e la distruzione delle infrastrutture, in particolare ospedali, reti idriche, centrali elettriche, università e moschee. Il rapporto riporta anche decine di migliaia di morti, per lo più donne e bambini, e una carestia di massa.

Parallelamente a questa documentazione, Mordechai analizza decine di dichiarazioni pubbliche di politici, rabbini e altre personalità israeliane che dall’inizio della guerra hanno invocato la distruzione di Gaza e della sua popolazione, come prova dell’intenzione genocida.

Anche la relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, ha dichiarato in merito alla guerra che in Israele si sentono espliciti appelli alla distruzione e all’aggressione indiscriminata dei gazawi, creando un ambiente favorevole al genocidio. Un quadro simile emerge dai rapporti di Amnesty International, dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Volker Türk e di altre organizzazioni mondiali. Molti hanno sottolineato che l’elevato numero di morti tra i bambini, le donne e gli anziani palestinesi riflette l’incapacità strutturale di Israele di rispettare i principi di proporzionalità e discriminazione che sono alla base del diritto internazionale umanitario.

In un editoriale pubblicato all’inizio del mese su Haaretz, il professor Michael Spagat, esperto di fama mondiale nel calcolo del numero di vittime nelle zone di conflitto, stima che il numero di morti a Gaza abbia superato i 100.000. Israele ha ridotto Gaza in rovina, rendendola inabitabile. Ha ucciso indiscriminatamente donne e bambini innocenti, ha preso di mira medici e operatori umanitari e ha creato le condizioni per la fame e l’assoluta miseria.

Si tratta di un genocidio.

La confutazione più eloquente di queste accuse è stata formulata il mese scorso. Un gruppo di ricercatori, tra cui il professor Dan Orbach, il dottor Yonatan Buxman, il dottor Yagil Hankin e l’avvocato Jonathan Braverman, del Centro Begin-Sadat per gli studi strategici dell’Università Bar-Ilan, ha pubblicato un rapporto di oltre 250 pagine intitolato “Sfatare le accuse di genocidio: una revisione della guerra tra Israele e Hamas (2023-2025)”.

Gli autori di questo rapporto utilizzano metodi di ricerca quantitativi e statistici e si basano su documenti provenienti da fonti israeliane, sia militari che governative, confrontando il conflitto con altri impegni militari, principalmente in Medio Oriente. Mettendo in discussione i dati fondamentali su cui le organizzazioni internazionali basano le loro accuse secondo cui Israele sta commettendo un genocidio nella Striscia di Gaza, essi affermano che tali organizzazioni si basano su cifre distorte da Hamas, nonché su rapporti non verificati o esagerati.

Anche il demografo Sergio DellaPergola, professore emerito dell’Università Ebraica, si è associato a questo approccio negazionista, apparentemente motivato da un profondo desiderio di respingere l’affermazione secondo cui a Gaza è in corso un genocidio attraverso calcoli manipolatori. In un editoriale pubblicato all’inizio del mese su Haaretz, DellaPergola ha criticato il discorso internazionale sulla guerra, affermando che le stime che valutano a oltre 100.000 il numero dei morti palestinesi a Gaza sono esagerate e distorte. Egli sostiene che tali stime si basano su dati distorti provenienti da fonti palestinesi e internazionali, che egli ritiene tutte inaffidabili.

Spagat ha riassunto bene le argomentazioni di DellaPergola sottolineando che respingere i dati del ministero della Salute di Gaza, guidato da Hamas, è «una strategia comune tra coloro che cercano di minimizzare l’entità delle sofferenze della popolazione civile a Gaza».

I mercanti del dubbio

Nir Hasson ha esaminato i problemi e le mezze verità contenuti nel documento redatto dai ricercatori del Centro Begin-Sadat in un articolo pubblicato all’inizio del mese. Egli classifica giustamente il loro rapporto nella categoria dei cosiddetti “mercanti di dubbi”, che utilizzano una ben nota tattica di negazione. Queste persone non negano necessariamente che un evento abbia avuto luogo, ma utilizzano tattiche di negazione per gettare dubbi sui dati e avanzare cifre diverse.

Potenti interessi economici hanno sfruttato questo metodo di negazione, ad esempio i produttori di tabacco che contestano il legame tra fumo e cancro, o le compagnie petrolifere che mettono in discussione la realtà del riscaldamento globale. È la stessa tattica utilizzata da coloro che negano il genocidio armeno e dai negazionisti dell’Olocausto. Da parte sua, Faurisson ha misurato il volume delle camere a gas e ha affermato che era fisicamente impossibile che potessero contenere il numero di vittime descritto dai testimoni oculari; di conseguenza, secondo lui, il genocidio non poteva essere provato.

Allo stesso modo, i ricercatori del Centro Begin-Sadat calcolano l’uso di munizioni da parte delle Forze di Difesa Israeliane in relazione al numero di vittime innocenti e concludono che la proporzionalità non può essere giudicata solo sulla base dei risultati, anche se questi sono drammatici. In altre parole, anche se le IDF hanno dispiegato una potenza di fuoco irragionevole che ha annientato intere famiglie, compresi neonati e bambini piccoli, ciò non significa che la forza utilizzata fosse sproporzionata. In altre parole, un numero elevato di vittime civili non prova che sia stato commesso un crimine di guerra. Ciò che conta, secondo la logica degli autori, è l’obiettivo militare stesso.

Un’altra tattica comune di negazione consiste nel relativizzare il numero delle vittime. Gli stessi autori affermano che è impossibile determinare il numero esatto dei morti a Gaza. Allo stesso modo, Faurisson affermava che milioni di persone non erano state uccise nelle camere a gas di Auschwitz-Birkenau, ma solo poche migliaia erano morte per malattie ed epidemie nei campi.

Il genocidio non richiede una direttiva unica ed esplicita, ma è piuttosto il risultato di un processo in cui la retorica, la strategia, il discorso politico, la disumanizzazione collettiva e schemi di azione ripetuti convergono in atti di distruzione di massa.

Ma anche se si riduce il numero stimato delle vittime a Gaza, diciamo a 30.000 civili palestinesi innocenti, un massacro di tale portata non dovrebbe comunque essere perseguibile penalmente? L’insistenza stessa nel voler ridurre la portata di un tale crimine a una cifra precisa è, tra le altre cose, una caratteristica classica del negazionismo genocida: un tentativo di confondere le atrocità con calcoli aritmetici.

Il rapporto di Orbach e dei suoi colleghi su Gaza, come i lavori dei negazionisti prima di loro, non costituisce una vera e propria indagine, ma piuttosto una serie di argomenti selettivi volti a scartare a priori qualsiasi possibilità di perseguire penalmente Israele per genocidio. Il quadro è forse più sofisticato del negazionismo grossolano di Faurisson, ma l’obiettivo è chiaro: sviare la responsabilità, confondere le considerazioni giuridiche e morali, seminare il dubbio e sostituire il dibattito pubblico di ordine etico con un dibattito tecnico. In questo modo, un simile approccio erige un muro tra le atrocità e il loro vero significato, il che corrisponde esattamente al pericolo contro cui aveva messo in guardia Raphael Lemkin, che ha coniato il termine «genocidio» quando era l’artefice della Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio: precisamente, la cancellazione delle identità e delle circostanze della morte delle vittime e la loro sostituzione con cifre, definizioni e modelli statistici.

Questo approccio contrasta fortemente non solo con la definizione iniziale di genocidio data da Lemkin, che enfatizzava la distruzione progressiva, istituzionale e culturale di gruppi etnici, ma anche con le successive interpretazioni scientifiche che insistono sul concetto di “intenzione cumulativa”.

Il genocidio non richiede una direttiva unica ed esplicita, ma è piuttosto il risultato di un processo in cui la retorica, la volontà e il discorso politico, la disumanizzazione collettiva e le modalità operative ricorrenti convergono in atti di distruzione di massa.

Quando i responsabili politici affermano che non ci sono innocenti a Gaza, quando un ministro israeliano chiede di sganciare una bomba atomica sulla Striscia di Gaza e altri propongono l’espulsione di massa di un milione di abitanti o suggeriscono di separare gli uomini dalle donne e dai bambini per eliminarli, questo discorso cumulativo si inserisce in un meccanismo che permette e legittima le azioni sul campo.

La debacle di Yad Vashem

Ma l’aspetto più triste di questa crescente tendenza di Israele a negare il genocidio a Gaza è riservato a Yad Vashem, l’autorità incaricata di custodire la memoria dei martiri e degli eroi dell’Olocausto. Gli storici che vi lavorano e dedicano anni a indagare sugli eventi dell’Olocausto scelgono di tacere e di non scrivere sugli orrori commessi a Gaza.

Alla luce del flusso di dichiarazioni rilasciate all’inizio della guerra da personalità politiche israeliane che incitavano al massacro, un gruppo di accademici israeliani si è rivolto al presidente di Yad Vashem, Dani Dayan, per chiedere all’istituzione di pubblicare una condanna pubblica di tali dichiarazioni, in particolare quelle che incitavano al genocidio. Ma nel gennaio 2024, Dayan ha risposto al professor Amos Goldberg, promotore dell’iniziativa: «I sei milioni di ebrei che sono stati uccisi durante la Shoah hanno diritto a un’istituzione che si occupi di loro e solo di loro. Pertanto, Yad Vashem non si occupa del genocidio in quanto tale, ma solo del suo rapporto con la Shoah… Il nostro campo di attività è la Shoah, e solo la Shoah».

I commenti del presidente di Yad Vashem sono inquietanti non solo per il suo silenzio, ma anche perché le sue parole sono avvolte da un velo di apparente integrità istituzionale, mentre voltano le spalle con arroganza al senso di responsabilità storica che dovrebbe ispirare la commemorazione dell’Olocausto. «Sei milioni di ebrei hanno diritto a un’istituzione che si occupi esclusivamente di loro», scrive Dayan, suggerendo l’esclusività della memoria degli ebrei assassinati come scusa per la durezza di cuore, per chiudere gli occhi e rimanere in silenzio di fronte ai crimini di guerra in corso e alle decine di migliaia di persone massacrate e affamate. Tutto questo fa parte del terribile crimine perpetrato dai discendenti di un altro genocidio, la Shoah, tra gli altri.

L’uccisione di sei milioni di ebrei non è stata forse resa possibile anche dal fatto che molte persone in tutto il mondo si sono sottratte alle loro responsabilità? Il fatto che Yad Vashem mantenga la sua posizione affermando che la sua competenza si limita all’Olocausto è un’ammissione di fallimento morale, un rifiuto di responsabilità basato sulla compiacenza istituzionale e sull’adesione ideologica a una politica governativa responsabile di orribili crimini di guerra. Si tratta di un palese tradimento dei valori di libertà, giustizia e sacralità della vita umana che la memoria dell’Olocausto dovrebbe insegnarci.

Quando un’istituzione commemorativa come Yad Vashem sceglie non solo di tacere, ma anche di rivendicare apertamente la propria decisione, non può più essere considerata un’istituzione della memoria. Diventa, volontariamente o meno, un’istituzione di autocompiacimento e negazione. E quando crimini odiosi vengono perpetrati a poche decine di chilometri di distanza, dagli stessi giovani che hanno visitato l’istituzione alcuni anni fa e che oggi sono arruolati nell’esercito, questo silenzio non è neutralità, è complicità.

La sociologa turco-americana Fatma Müge Göçekesamina nel suo libro “Denial of Violence: Ottoman Past, Turkish Present and Collective Violence Against the Armenians, 1789-2009” (2015) le radici della negazione del genocidio armeno come processo psicosociale prolungato e continuo. Essa afferma che la negazione è una risposta psicosociale collettiva, che si estende su quattro generazioni di turchi, di fronte a un crimine inconcepibile.

La società turca soffre di una profonda dissonanza morale. Testimone di innumerevoli prove che attestano il proprio terribile crimine, ha inventato una narrazione collettiva basata sul proprio status di vittima: delle guerre, dell’imperialismo occidentale, del crollo dell’Impero ottomano. Questa dinamica dà origine a un’identità nazionale la cui componente difensiva – ovvero il rifiuto di ogni responsabilità – è diventata determinante quanto la memoria stessa.

Per generazioni, la Turchia ha costruito una narrazione basata sull’occultamento, la giustificazione e il silenzio che non solo ha soffocato la voce degli “altri” (gli armeni), ma ha anche impedito qualsiasi evoluzione morale dei turchi stessi. Questa negazione deriva da una profonda paura del crollo dell’identità nazionale se la verità storica fosse riconosciuta, e questa paura si traduce in ostilità verso chiunque tenti di adottare un approccio critico nei confronti del crimine.

Nel corso delle ultime tre generazioni, anche Israele ha costruito un’identità di vittima, dagli atti perpetrati durante l’Olocausto a quelli di Hamas il 7 ottobre. Nega i propri crimini e vive quindi in una realtà costantemente distorta. Qualsiasi tentativo di parlare dei crimini commessi da Israele contro i palestinesi è considerato una minaccia non solo per l’immagine della nazione, ma anche per la sua stessa sopravvivenza. Il discorso difensivo è diventato fondamentale per l’identità nazionale di Israele, e qualsiasi critica a questo discorso è accolta con il tipo di violenza istituzionale e pubblica a cui assistiamo oggi.


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