La riaccensione del conflitto tra Thailandia e Cambogia intorno al tempio conteso di Prasat Ta Muen Thom riflette tensioni storiche irrisolte, rivalità identitarie e nuovi equilibri geopolitici nel Sud-est asiatico.
Di Paola Morselli Junior Research Fellow ASIA
Tra il 23 e il 24 luglio, il confine tra Thailandia e Cambogia è tornato a infiammarsi, segnando una nuova, preoccupante escalation di un conflitto mai del tutto sopito. Le tensioni si sono inizialmente concentrate nei pressi di Prasat Ta Muen Thom, un tempio sacro Hindu-Khmer situato in un’area contesa tra i due paesi. Al centro della disputa vi sono contese territoriali lasciate irrisolte dall’epoca coloniale, in cui i confini tra i due paesi sono stati definiti in modo impreciso e provocando ambiguità giuridiche e politiche. Secondo le autorità thailandesi, gli scontri armati delle ultime ore hanno causato la morte di almeno undici civili thailandesi e di un soldato, oltre a 31 feriti. La Cambogia, al momento, non ha rilasciato un bilancio ufficiale delle vittime.
Cosa sta succedendo al confine tra Thailandia e Cambogia?
Le tensioni sono scattate con l’esplosione di due mine antiuomo nel giro di una settimana, che hanno ferito sei militari thailandesi, due dei quali in modo grave. A seguito degli incidenti, le relazioni diplomatiche sono rapidamente peggiorate: entrambi i governi hanno richiamato parte del personale delle rispettive ambasciate e hanno avviato una serie di misure di ritorsione incrociata sul piano economico e politico.
Tuttavia, la situazione ha preso una piega decisamente più grave tra il 23 e il 24 luglio, quando si è riaperto un violento scambio di fuoco lungo il confine conteso. Oltre alle vittime e i feriti sopra riportati, il governo thailandese ha confermato che i razzi lanciati dalla Cambogia avrebbero colpito aree civili in almeno quattro province di confine, spingendo Bangkok a ordinare l’evacuazione di numerosi villaggi e a lanciare una controffensiva con caccia F-16 su obiettivi militari cambogiani.
Phnom Penh, dal canto suo, ha accusato l’esercito thailandese di aver aperto per primo il fuoco contro le truppe cambogiane presso il tempio di Ta Muen Thom, luogo di importanza storica conteso da entrambi i paesi. Secondo la versione cambogiana, le forze locali avrebbero reagito dopo l’inizio degli spari da parte della controparte thailandese. Inoltre, Phnom Penh ha denunciato in queste settimane la violazione del proprio spazio aereo da parte di droni thailandesi e l’installazione di filo spinato nei pressi del tempio conteso, rafforzando l’impressione che l’area si stia trasformando in un vero e proprio fronte di conflitto aperto.
L’origine della contesa territoriale
Le origini del conflitto vanno ricercate nella complessa storia coloniale della regione. Nel XIX secolo, la Cambogia fu assorbita nel protettorato francese dell’Indocina, mentre la Thailandia, all’epoca nota come Siam, riuscì a conservare la propria indipendenza attraverso un delicato equilibrismo diplomatico con le potenze europee. Tra il 1904 e il 1907, Francia e Siam firmarono una serie di trattati per delimitare i rispttivi confini, segnando una demarcazione lungo la catena montuosa dei Dângrêk. Tuttavia, le mappe disegnate dai cartografi francesi non sempre riflettevano in modo coerente il contenuto degli accordi, generando ambiguità sulla demarcazione e sulla sovranità di alcune aree di frontiera che ancora oggi sono alla base delle dispute.
Alcune di queste dispute hanno portato anche a sanguinosi scontri. Ad esempio, il tempio di Preah Vihear, è stato teatro di una contesa tra Thailandia e Cambogia nel 2011 che ha portato a numerose vittime. E tale scontro è avvenuto nonostante l’area del tempio fosse già stato oggetto di un pronunciamento della Corte Internazionale di Giustizia nel 1962, che lo assegnò formalmente alla Cambogia. Questa decisione, tuttavia, non ha messo fine alla disputa, poiché la Thailandia non riconosce la decisione della corte sulla questione e ha continuato a contestare il controllo delle aree limitrofe, sostenendo che le mappe storiche utilizzate dalla Corte non riflettessero fedelmente gli accordi tra il Siam e la Francia coloniale. Le tensioni si sono riaccese più volte, culminando in ulteriori scontri armati e nella decisione della Corte, nel 2013, di chiarire che anche il promontorio su cui sorge il tempio rientra sotto la sovranità cambogiana. Questo verdetto, come prevedibile, non ha risolto del tutto la frizione diplomatica.
Ancor diversa è la situazione del tempio di Prasat Ta Muen Thom, al centro dell’attuale disputa: formalmente sotto controllo thailandese, nella regione del Surin, il tempio si trova nei pressi della stessa catena montuosa dei Dângrêk. Il sito è particolarmente sensibile, sia per la sua posizione strategica, sia per il valore simbolico che riveste nella memoria nazionale di entrambi i paesi. A differenza del Preah Vihear, il Prasat Ta Muen Thom non è mai stato oggetto di un pronunciamento formale da parte della Corte Internazionale di Giustizia. Questo vuoto giuridico ha lasciato spazio a una disputa aperta, complicata da frequenti pattugliamenti militari e da episodi di confronto tra soldati dei due eserciti.
Le due narrazioni nazionali, alimentate da retoriche identitarie e da un patrimonio culturale condiviso trasformato in oggetto di rivendicazione, rendono impossibile una soluzione semplice. Ogni nuova frizione, ogni incidente, rischia di degenerare in crisi più ampie, come dimostra la situazione attuale.
Conseguenze politiche interne e per la regione
Oltre al piano militare, le conseguenze si sono già estese al livello politico ed economico. Phnom Penh ha vietato l’importazione di alcuni prodotti agricoli thailandesi e ha interrotto la distribuzione di contenuti culturali thailandesi. Bangkok, nel mentre, ha minacciato di sospendere la fornitura di energia elettrica e connessione internet alle province cambogiane di confine e ha chiuso temporaneamente parte delle proprie frontiere.
Ad ora la comunicazione istituzionale tra i due governi risulta di fatto interrotta, con il governo thailandese che ha dichiarato che non ci saranno negoziazioni finché non cesseranno le ostilità.
A complicare ulteriormente la crisi è l’instabilità politica interna in Thailandia. La premier Paetongtarn Shinawatra, figlia dell’ex primo ministro Thaksin, è stata sospesa dal suo incarico dalla Corte costituzionale dopo la diffusione di una telefonata privata con Hun Sen, ex leader cambogiano e padre dell’attuale primo ministro Hun Manet. La conversazione, in cui la premier thailandese appariva eccessivamente conciliatoria, è stata letta come un segno di debolezza dal potente blocco conservatore-militare del paese, che l’ha criticata aspramente chiedendone la rimozione. Il governo è ora affidato a un primo ministro ad interim, con una capacità di manovra limitata.
In un contesto già segnato da fragili equilibri, la crisi al confine rischia di avere effetti destabilizzanti anche su scala regionale. Sia la Thailandia che la Cambogia fanno parte dell’ASEAN, l’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico. Sebbene efficace come blocco commerciale, l’ASEAN ha mostrato negli ultimi anni notevoli limiti sul piano politico, soprattutto a causa del principio di non ingerenza negli affari interni degli Stati membri. La gestione della crisi in Myanmar dopo il colpo di Stato del 2021 ne è stata un esempio, considerando che l’organizzazione è rimasta divisa e incapace di proporre una strategia efficace per attenuare la crisi umanitaria in atto in uno dei suoi stati membri. Il nuovo fronte tra Bangkok e Phnom Penh, se dovesse protrarsi il conflitto, potrebbe rappresentare dunque un ulteriore colpo alla già fragile credibilità politica dell’ASEAN.
Sul piano geopolitico più ampio, la crisi si inserisce in un momento in cui le grandi potenze – Cina e Stati Uniti – osservano con attenzione il Sud-est asiatico. Sotto il nuovo mandato di Trump, gli Stati Uniti hanno adottato una politica commerciale fortemente protezionista, imponendo dazi anche su paesi ASEAN accusati di fungere da intermediari per le esportazioni cinesi. Da mesi quindi i paesi della regione stanno cercando di arginare le politiche statunitense cercando anche partner alterativi con cui commerciare. In questo vuoto strategico, la Cina ha rafforzato la propria presenza – già in espansione da decenni sia su piano economico che diplomatico. Pechino considera la stabilità del Sud-est asiatico cruciale per le proprie catene di approvvigionamento e per il commercio, investendo ampi flussi di capitale nei vicini paesi asiatici. La Cambogia è da tempo uno degli alleati più fedeli della Cina nella regione, mentre la Thailandia, pur storicamente vicina agli Stati Uniti, ha progressivamente avvicinato le proprie posizioni a quelle di Pechino. Forte di questa posizione e di fronte a degli Stati Uniti che appaiono come partner sempre meno affidabili nella regione, di fronte alla nuova crisi, il governo cinese ha espresso “profonda preoccupazione”, mostrandosi pronto a favorire un dialogo tra le parti.
La crisi in corso, insomma, è ben più di una disputa territoriale: è il punto di scontro tra eredità coloniali, rivalità regionali e logiche globali.
da: https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/thailandia-cambogia-dove-nasce-la-tensione-214816
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