Pubblichiamo da ISPI questo articolo, che spiega il punto di vista della parte più importante del capitale italiano ed europeo. I principali centri di studio e orientamento del capitalismo italiano (ISPI, Limes …) ed europeo sembrano essere risolutamente contro le politiche di Trump e eventuali accomodamenti delle direzioni politiche europee. Non così gran parte dei governi che viaggiano in uno stato confusionale.(red.)
I dazi imposti da Trump penalizzano l’export UE, soprattutto italiano, frenano la crescita e, con il dollaro debole, aggravano le perdite senza risolvere il deficit USA.
- A partire da aprile, l’amministrazione Trump ha aumentato drasticamente i dazi medi sulle importazioni, passando dal 2,3% all’8,8%. Anche l’UE è stata colpita, con un aumento medio dall’1,3% al 6,7%. Tra i paesi UE, l’Italia è uno dei più penalizzati, con un dazio medio salito all’8%, contro l’11% della Germania e il 6,4% della Francia.
- È complesso capire come stiano andando le trattative tra Stati Uniti e UE; quel che è certo è che in gioco ci sono decine di miliardi di euro di crescita economica. Un dazio al 10%, come oggi, significa un rallentamento della crescita dello 0,1% per l’UE. Rallentamento che salirebbe allo 0,7% se i dazi americani crescessero al minacciato 50% (0,6% per la sola Italia, assieme alla Germania l’economia potenzialmente più colpita).
- Anche il deprezzamento del dollaro sull’euro (-13% dall’inizio del mandato di Trump) è un ulteriore colpo per gli esportatori europei. Rende le esportazioni europee meno competitive e agisce come un “dazio implicito”, portando le perdite potenziali per gli esportatori italiani fino al 21% rispetto al periodo pre-Trump.
- Oltre a motivazioni ideologiche, la guerra commerciale americana ha un secondo obiettivo: generare entrate per ridurre il deficit federale USA. Tuttavia, anche con un aumento delle entrate da dazi da 80 a 290 miliardi di dollari l’anno, queste non basteranno a compensare l’aumento del deficit causato dai nuovi piano di spesa (OBBBA), che farà crescere il disavanzo da 1.800 a 2.100 miliardi di dollari (7% del PIL).

Con il “Liberation Day” proclamato ad aprile, il ciclone dazi scatenato da Donald Trump si è abbattuto sul mondo. Così a maggio il dazio medio imposto dagli Stati Uniti è quasi quadruplicato, dal 2,3% del pre-Trump al 8,8%. E se è vero che gli effetti peggiori sono stati avvertiti da Pechino, il cui dazio medio è cresciuto dall’11% al 48%, anche gli “alleati” europei non sono stati risparmiati: una salita dall’1,3% al 6,7%.
E l’Italia? Sembrerebbe logico attendersi che il dazio medio americano che grava sull’Italia sia uguale a quello di tutto il resto d’Europa, dal momento che siamo in unione doganale e i dazi sono uguali per tutti. Ma i dazi americani non sono identici in tutti i settori economici. Infatti, mentre Trump ad aprile ha portato il dazio minimo verso l’UE al 20%, per poi ridurlo al 10% (inaugurando un periodo di “tregua” che si dovrebbe concludere il 9 luglio), su singoli prodotti possono esserci dazi più alti (per esempio i dazi alle importazioni di alluminio e acciaio sono arrivati al 50%, e quegli agli autoveicoli al 25%) o più bassi (come le esenzioni al settore farmaceutico).
Questo significa che il dazio effettivo dipende da quali prodotti si esportano verso gli USA, e così l’Italia ne esce un po’ più penalizzata. Se già prima dell’arrivo di Trump il dazio medio applicato al nostro paese gravitava intorno al 2,1% (contro l’1,3% medio dell’UE), a maggio era ormai arrivato all’8%. Peggio di noi fa la Germania (11%), mentre la Francia si ferma al 6,4%.

Le negoziazioni tra Unione europea e Stati Uniti, d’altro canto, non stanno procedendo in maniera spedita, innervosendo Trump che è arrivato a minacciare di tornare a imporre dazi fino al 50% sui beni europei (come aveva fatto per un weekend a fine maggio, salvo poi tornare sui suoi passi e ribadire che la “tregua” sarebbe durata almeno fino a oggi, 9 luglio). Uno scenario, quello di dazi al 50%, che metterebbe a rischio i paesi il cui export verso gli Stati Uniti pesa di più sulla loro economia, come Germania e Italia.
Naturale dunque attendersi maggiori impatti sull’economia per Berlino e Roma. In uno scenario di dazi al 50%, infatti, si prevede che il PIL tedesco perderebbe lo 0,8% rispetto a uno scenario senza dazi, quello italiano lo 0,6%, mentre quello francese “solo” lo 0,4%

C’è poi un secondo problema che colpisce gli esportatori verso gli Stati Uniti: l’andamento del tasso di cambio euro-dollaro. Anziché apprezzarsi, come sarebbe stato lecito attendersi dopo l’imposizione dei dazi da parte di Trump, il dollaro si è notevolmente deprezzato rispetto all’euro: dall’entrata in carica di Trump (20 gennaio) a oggi ha perso il 13% del suo valore contro l’euro.
Gli osservatori spiegano questo calo con una notevole perdita di credibilità della valuta americana, dovuta proprio all’incertezza generata dai dazi (una scelta diretta delle politiche americane, e non uno shock globale che avrebbe causato una “fuga verso il dollaro) e, al contempo, all’incapacità della classe politica statunitense di risanare il bilancio federale (vedere alla voce “Big Beautiful Bill”).
Qualsiasi sia la ragione di questo deprezzamento del dollaro, per chi esporta verso gli Stati Uniti esso equivale a un dazio aggiuntivo di quasi lo stesso importo. In sostanza, il “colpo medio” subito dagli esportatori italiani, in questo momento, non è quantificabile nell’8% del dazio, ma in un 21% di potenziali entrate in meno, a meno di ricaricare questi extra-costi tutti sul prezzo finale del bene.

Dietro alle convinzioni ideologiche e non basate sulla teoria economica (“tutti i deficit commerciali fanno male”), la strategia della guerra commerciale nasconde, neppure tanto velatamente, un secondo obiettivo: quello di usare le entrate dai dazi per ripianare un altro deficit americano, quello del bilancio federale.
Imponendo dazi molto alti, in effetti, Trump sta ottenendo entrate molto più elevate nelle casse federali: se per un anno andasse come lo scorso maggio, le entrate crescerebbero da meno di 80 a quasi 290 miliardi di dollari. Chi paga questi dazi? Formalmente il dazio è una tassa sulle importazioni pagata dagli importatori americani. Ovviamente una quota del dazio può essere assorbita dai produttori esteri o dai distributori domestici, ma buona parte di queste nuove entrate sarebbero pagate direttamente dai consumatori americani attraverso aumenti di prezzo. In ogni caso, l’effetto fiscale sarebbe positivo: maggiori entrate nelle casse federali.

Eppure, si tratterebbe di un effetto del tutto insufficiente. E questo anche alla luce del fatto che il Congresso ha appena approvato lo One Big Beautiful Bill Act (OBBBA) proposto da Trump, che nel primo anno dall’entrata in vigore farà lievitare il deficit americano, già alto (1.800 miliardi di dollari, il 6,3% del PIL), di altri 500 miliardi.
Ciò significa che neanche i quasi 210 miliardi l’anno in più generati dalle maggiori entrate dai dazi saranno sufficienti a coprire l’ulteriore disavanzo. Così il deficit lieviterà ulteriormente oltre i 2.100 miliardi di dollari, toccando la cifra “monstre” del 7% del PIL e portando il debito su una traiettoria difficile da tenere sotto controllo (oltre 100% del PIL).
In realtà secondo il sito: https://www.usdebtclock.org , che elabora in tempo reale i dati economico sociali degli USA sui dati ufficiali, il debito pubblico federale è oggi al 123,11% del PIL, quello complessivo comprendente anche i debiti delle amministrazioni locali, al 133,64%. (Red)
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