Riceviamo e molto volentieri pubblichiamo la pungente replica che la compagna Paola Tonello (curatrice del quaderno del Cuneo rosso, “La posta in gioco. Riflessioni e proposte per un femminismo rivoluzionario”) ha dato ad una relazione di tale prof. Martone, esponente di quella “sinistra” che si sta specializzando nel copiare la destra, avente come oggetto “la controrivoluzione femminista”. (Red.)
Scorrendo il sito Sinistra in rete ci si imbatte in un titolo inquietante: “La controrivoluzione femminista”. Di cosa mai si tratterà? È la relazione del Prof. Antonio Martone ad un convegno dedicato ad una “Rilettura alternativa della questione di genere. Per una critica di classe del femminismo”.
Accipicchia. Cose grosse.
Pur essendo doveroso un atteggiamento critico verso ogni fenomeno sociale e culturale presente o passato, una domanda preliminare sorge spontanea: di quale femminismo intende parlarci il professore? Di quello della cosiddetta prima, seconda, o terza ondata? Del femminismo delle suffragette, della Flora Tristan, delle comunarde di Parigi, di Louise Michel, delle comuniste Alexandra Kollontaj e Clara Zetkin, del femminismo delle donne del Sud del mondo, protagoniste delle lotte anticoloniali? o del femminismo del Combahee River Collective, di Angela Davis, o di Silvia Federici? del femminismo materialista di Christine Delphy, dell’ecofemminismo di Maria Mies e Vandana Shiva, o di quello delle grandi lotte delle operaie e contadine indiane? del femminismo marxista di Lise Vogel, oppure (è tutt’altra cosa, incompatibile con esso) del transfemminismo o del femminismo identitario, e si potrebbe continuare…
L’autore mira al bersaglio alto: nientemeno che ad Herbert Marcuse (uno dei punti di riferimento dei giovani che alla fine degli anni ’60 si sono ribellati, al di qua e al di là dell’Oceano, al sistema capitalistico che, soprattutto negli Stati Uniti, li voleva portare in guerra, e li portò effettivamente in guerra nel Vietnam). Marcuse, riferisce l’autore, affermò che la liberazione della donna si sarebbe realizzata solo attraverso una rivoluzione, essendo la sua oppressione intrinsecamente legata e necessaria al sistema capitalistico. Oh, non dirmi. Povero illuso!
Ma quale oppressione?
Il “femminismo” non meglio identificato (per identificarlo in modo un po’ meno generico, il prof. dovrebbe aver studiato) ha il torto di riferirsi al patriarcato, e qui, non senza un certo stupore, apprendiamo non solo che il patriarcato non c’è più (il che sembra un luogo comune, se ci si riferisce al sistema sociale che ha dominato per secoli, ed ora è stato perfettamente inglobato dal moderno sistema sociale capitalistico, permanendo come cultura e comportamenti assai diffusi all’interno del patriarcalismo collettivo), ma addirittura che nemmeno nel patriarcato più sistemico le donne erano veramente oppresse. Anzi, al contrario, godevano di privilegi e comodità, come quella di restare a casa al calduccio a chiacchierare con le amiche, mentre sugli uomini gravava il peso del comando e il rischio del combattimento.
Nel regno della complementarietà, era – a suo dire – garantito un equilibrio di poteri, di diritti e di doveri alquanto invidiabile, maldestramente inquinato dall’assurda smania di colpevolizzazione attribuita alle donne, che addirittura avevano il potere di privare gli uomini della sfera emotiva, non consentendo loro di occuparsi dei figli!
Le donne, sostiene, non erano “totalmente impotenti” (solo un pochino…), erano al contrario influenti a livello sociale e familiare. Addirittura, si dichiara che “lo stigma dell’oppressione impresso sulla storia degli uomini è molto problematico e del tutto antistorico”. Mai sentito parlare del pater familias? Del suo diritto di vita e di morte, del possesso e della vendita delle donne? Della loro esclusione dall’istruzione, dalla vita sociale, dalla proprietà dei beni? Della loro riduzione al ruolo di riproduttrici? Del loro far parte del bottino di guerra dei vincitori? Ma no, per lui la fissa femminista “di applicare la logica del privilegio al contesto storico patriarcale rischia di escludere il sacrificio che ha caratterizzato la vita storica degli uomini di tutte le epoche.”
Di fronte a tale accorata e competentissima ricostruzione del passato, ci vengono le lacrime agli occhi, ma ci facciamo forza e continuiamo.
I capi d’accusa proseguono attribuendo alle donne d’oggi la costruzione del macho obbligato a reprimere le emozioni, ad essere virile, a puntare sul successo individuale, tutti obiettivi imposti dal desiderio femminile, il cui mancato raggiungimento non fa che creare “frustrazione e inadeguatezza” giungendo alla liberatoria conclusione che “in definitiva, se guardiamo alla storia degli uomini, non vediamo né oppressione né privilegi…”.
Che respiro di sollievo! Questa sì che è una critica di classe del femminismo fatta come si deve! E pensare che un esponente della critica di classe, quella vera però, tale Friedrich Engels, ne ha mai sentito parlare professore?, scrive: “La moderna famiglia singola si fonda sulla schiavitù, patente o mascherata, della donna“, e scandisce questo concetto: nella famiglia borghese l’uomo, nel senso di maschio, “è il borghese, la donna il proletario“.
Ma ecco che il nostro professore si avvicina all’oggi, e arriva al dunque illuminandoci sull’effetto che le lotte delle donne hanno avuto e hanno sull’insieme delle lotte dei movimenti (operaio, antirazzista, ambientalista). Questo effetto, lui garantisce, è stato ed è del tutto deleterio, poiché da qualunque punto di vista si considerino, sono lotte “divisive” che hanno impedito addirittura che si sviluppasse lo spirito unitario (e rivoluzionario?) nelle lotte più generali del movimento operaio. Non una delle loro rivendicazioni é giustificata. Sempre lì, petulanti, divisive, a richiedere uguaglianza, e poi autodeterminazione; e, non accontentandosi neanche di quella, eccole a denunciare la violenza e la povertà che affligge in modo tutto particolare le loro vite. E poi ancora a sottolineare la complicità nell’oppressione che buona parte del mondo maschile condivide, da un lato, come strumento di stabilità del sistema sociale, dall’altro, come misero esercizio di potere all’interno delle mura domestiche, in cui la centralità del potere del maschio, del suo progetto di vita, della gerarchia di valori propria della famiglia, non sono quasi mai in discussione.
Martone arriva addirittura a scoprire l’uovo di Colombo, e cioè che il capitalismo oppone alle lotte da un lato la repressione, dall’altro il tentativo di cooptare e snaturare le rivendicazioni che le hanno mosse. Banalissimo, ma fatto sta che la spinta all’individualismo, il declinare dello spirito collettivo, non sono certo da imputare all’essenza del femminismo, in particolare del femminismo rivoluzionario anti-capitalista, che è quello in cui noi ci riconosciamo, ma alla pressione ideologica che la classe capitalistica esercita su tutta la società (o la classe dominante è diventata, a nostra insaputa, quella delle donne?). Senonché questo modo di operare del potere borghese non è specifico della questione femminile, fa parte della normale dialettica della lotta di classe tra classe capitalistica, da un lato, classe operaia e tutti gli oppressi, dall’altro. Ed è combattuto dalla forza e determinazione, dall’ampiezza e consapevolezza dei movimenti, che in questa fase non sono troppo in buona salute. Perché, al contrario di quanto afferma Martone, essi hanno molto in comune, ma non ancora la necessaria spinta all’unità di intenti e di azione che sarebbe necessaria per farla finita con il capitalismo e le sue molteplici forme di oppressione, tra cui quella sulla massa delle donne senza privilegi.
Vi sono infine alcune desolanti affermazioni su quelle che sarebbero le falle strategiche del “femminismo” moderno: il puntare sull’autodeterminazione (cioè non accettare di essere determinate nelle proprie scelte riproduttive e di vita dalle esigenze del profitto capitalistico e dai modelli di comportamento dominanti), o il richiamarsi alla nefasta teoria dell’intersezionalità, che nella sua accezione più significativa e genuina, espressa da Angela Davis, sottolinea come l’oppressione delle donne si possa comprendere e lottare solo all’interno della visione complessiva dei capisaldi dell’organizzazione sociale capitalistica: l’oppressione di genere, di classe e di razza.
La battuta finale di Martone riduce il “femminismo” (non si è capito ancora quale, forse non lo sa neppure lui…) ad una “emancipazione delle donne contro gli uomini”. Beh, al termine della sua prolusione, il professore doveva essere davvero molto stanco. Il che non giustifica il suo approccio sgangherato e, a dir poco o niente, pressapochista alle questioni che tratta.
E la “critica di classe” dov’è finita? Non si capisce neppure di quale classe parli, essendo le sue critiche simili come gocce d’acqua a quelle di campioni del giornalismo borghese tipo Feltri. Ah, ecco, forse si riferisce ad una certa critica borghese, in tutto reazionaria, del femminismo. Approdo naturale di una certa “sinistra” che non fa altro se non riproporre i luoghi comuni di una destra estrema.
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