“Gli Stati Uniti continuano a essere a fianco del Pakistan nella sua lotta contro il terrorismo (…) il nostro affetto va alle famiglie e ai cari di coloro che sono stati uccisi (…) Stati Uniti e Pakistan hanno un interesse comune nel combattere le minacce alla sicurezza regionale, e noi continueremo a stare al fianco del Pakistan nella sua lotta contro il terrorismo”.

Così parlava, non durante la war on terror ma pochi giorni fa, il portavoce del dipartimento di Stato Matthew Miller, sottolineando come il popolo pakistano abbia molto sofferto per mano dei terroristi e facendo eco alle dichiarazioni di Donald Lu, sottosegretario di Stato americano per gli Affari dell’Asia meridionale e centrale, che di recente chiedeva al Congresso americano qualche centinaio di milioni di dollari per finanziare il Pakistan nella sua sempiterna e sempreverde ricerca di fondi per la “lotta contro il terrorismo”.

Terrorismo che in teoria, secondo il breviario di Washington, dopo il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan e la solenne promesse dei Taliban di fare i bravi bambini, dovrebbe essere ormai sconfitto e defunto nella regione. Miller si riferiva, nella sua ultima esternazione, a un episodio avvenuto lo scorso 26 agosto in Balucistan. Quando i membri del Balochistan Liberation Army (Bla) hanno tenuto sotto scacco per quasi due giorni le Forze armate pakistane.

I combattenti del Bla hanno assaltato e tenuto per venti ore una postazione militare dell’esercito pakistano a Bela, hanno fatto saltare un ponte bloccando la linea ferroviaria e hanno distrutto diverse postazioni e punti di controllo dell’Esercito, sequestrato quantità significative di armi e munizioni e istituito posti di blocco sulle strade principali della regione.

Secondo il portavoce del Bla, a rimanere sul terreno sono stati 130 soldati pakistani più un certo numero di membri delle forze dell’ordine e dell’intelligence militare, fermati a un blocco stradale, che ritornavano da una vacanza in Punjab e vestivano abiti civili. Secondo il governo di Islamabad, i militari uccisi erano poco meno di quaranta e il Bla ha ucciso invece una trentina inermi civili che viaggiavano in autobus e camion: i civili a cui andrebbe il “pensiero affettuoso” di Miller.

Sempre secondo Islamabad, l’eroico esercito pakistano (che non ha mai vinto nemmeno una guerra a Risiko, è bene ricordarlo) ha valorosamente sconfitto i “terroristi” ancora una volta rintuzzando la scaramuccia e lasciando sul terreno una ventina di militanti. Di cui sette, ha dichiarato il Bla, appartenevano alla Brigata Majeed, un gruppo di combattenti suicidi formato qualche anno fa. Tra i sette c’era anche una ragazza, Mahal Baloch. A parte i componenti della Majeed, a compiere l’operazione sarebbero stati circa ottocento combattenti appartenenti alle forze regolari del Bla. Ottocento, non otto o ottanta. 

Carta di Laura Canali - 2010
Carta di Laura Canali – 2010 

E l’azione pianificata non è più l’assalto a un camion o a una stazione di polizia di un manipolo di disperati ma una vera e propria azione di guerra ben concepita, coordinata ed effettuata da truppe numerose, ben addestrate e armate con quelle stesse armi americane abbandonate in Afghanistan e contrabbandate immediatamente in Pakistan dagli stessi Taliban: da quelli “buoni” a cui è stata appaltata buona parte del Waziristan, e da quelli “cattivi” che combattono invece contro Islamabad e sono disposti ad aiutare chiunque faccia lo stesso.

Il dipartimento di Stato americano ha incluso nel 2019 il Bla nella lista dei gruppi terroristici internazionali per compiacere il Pakistan. Un riconoscimento ai tempi ritenuto fondamentale per portare a casa lo sciagurato accordo di Doha, che restituiva l’Afghanistan ai Taliban, pur sapendo perfettamente che il Bla, come tutti gli altri gruppi baluci, non è un gruppo internazionale, non ha radici ideologiche né tantomeno religiose e ha come unico scopo l’indipendenza della regione del Balucistan.

Riassumendo la questione: in Balucistan, regione illegalmente occupata dal Pakistan nel 1948, è in corso un genocidio culturale e fisico. Ogni anno scompaiono migliaia di persone: prese dall’Esercito, dalle forze dell’ordine o dalle death squads, squadre di criminali al soldo dell’intelligence. E mai più riviste. A volte riappaiono, uccise e gettate ai bordi delle strade con addosso segni di tortura, o nelle fosse comuni, scoperte per caso e immediatamente occultate dallo Stato. Altre volte, prive di organi, gettate come rifiuti sui tetti degli ospedali. Sono intellettuali, attivisti dei diritti umani, politici dissidenti, studenti, giornalisti, professori. Sono uomini giovani, anziani, donne e anche bambini: colpevoli soltanto di essere figli o fratelli di un dissidente ma soprattutto di essere baluci.

Nella regione il Pakistan effettua i suoi esperimenti nucleari e ha tenuto nascosti per anni i talebani ricercati dagli americani. Nella regione ci sono più basi militari che ospedali o scuole. Nella regione i cinesi hanno costruito vere e proprie prigioni a cielo aperto per i baluci in nome dello sviluppo e del progresso portato dal China-Pakistan Economic Corridor. Perché il Balucistan, la provincia più ricca di risorse del Pakistan, è anche la più povera del paese in termini di reddito pro capite.

CORRIDOIO CINA-PAKISTAN

Le proteste pacifiche dei cittadini che chiedono diritti umani e civili e la fine delle sparizioni forzate – migliaia di persone in piazza negli ultimi mesi assaltate dalla polizia, brutalmente picchiate e fatte sparire – cadono in un assordante silenzio sia del governo che della stampa locale. Così come i bombardamenti indiscriminati sui civili un po’ in tutta la regione.

D’altra parte, negli ultimi anni Islamabad sta applicando la “ricetta Balucistan” a chiunque protesti contro il governo: sparizioni forzate e omicidi a sangue freddo vengono adoperate come mezzo di repressione anche in Khyber Pakhtunkhwa, in Sindh, nel Gilgit Baltisan e nel Kashmir pakistano. E l’esercito, che governa ormai con pugno di ferro senza nemmeno prendersi la briga di nascondersi dietro al premier Shehbaz Sharif, non ha alcuna intenzione di permettere al governo di prendere in considerazione le richieste dei cittadini, che siano di natura economica o sociale.

La stampa è stata di fatto imbavagliata, così come i social: e a quanto pare i provider internet pakistani stanno utilizzando una tecnologia chiamata Dpi (deep pocket inspection), simile al Great Firewall cinese, che consente loro di analizzare e controllare il traffico di rete in base al suo contenuto. L’ex capo dell’Isi Faiz Hameed è stato portato davanti alla corte marziale con un pretesto più o meno irrisorio: per costringerlo, dicono, a testimoniare contro l’ex premier Imran Khan che potrebbe essere accusato di tradimento e potenzialmente condannato a morte.

Nota curiosa: a gestire la cacciata di Imran pare sia stato, dietro le quinte, lo stesso Donald Lu di cui sopra, che pare invece godere di ottime relazioni con gli attuali vertici dell’Esercito e dei servizi segreti. Gli stessi servizi che, dicono in Bangladesh e dintorni, si sono incontrati nei mesi scorsi a Doha e a Dubai con alcuni membri delle organizzazioni studentesche che siedono adesso nel “governo provvisorio” di Dacca e che hanno contribuito in modo decisivo a cancellare il bando sulle organizzazioni integraliste islamiche legate a doppio filo al Pakistan e al jihad internazionale.

La situazione nella regione, dicono gli analisti locali, è molto, troppo simile a quella che ha poi condotto all’11 settembre. Jihadisti e integralisti usati come mezzo di pressione politica e geopolitica nell’illusione che possano essere controllati a tempo indeterminato. E il Pakistan, ancora una volta al centro degli intrighi regionali e internazionali, sprofonda sempre più nelle trappole finanziarie adoperate come mezzo di ricatto. I soliti serpenti, insomma, che, allevati nel proprio cortile, dovrebbero mordere sempre e soltanto i vicini.

da: https://www.limesonline.com/articoli/pakistan-usa-balochistan-terrorismo-afghanistan-16945903/?ref=LHTP-BH-I16726669-P1-S3-T1


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