Due mesi fa, in Israele, una sua conferenza è stata contestata da studenti di estrema destra. I loro discorsi gli hanno riportato alla mente alcuni dei momenti più bui della storia del XX secolo e si sono sovrapposti in modo sconvolgente ad un sentimento diffuso nell’opinione pubblica israeliana. Tanto da suggerirgli alcuni inquietanti paralleli, fino ad allora impensabili e improponibili.
di Omer Bartov, da The Guardian
Il 19 giugno 2024 dovevo tenere una conferenza all’Università Ben-Gurion del Negev (BGU) di Be’er Sheva, in Israele. La mia conferenza faceva parte di un evento sulle proteste dei campus di tutto il mondo contro Israele, e avevo in programma di affrontare la guerra a Gaza e, più in generale, la questione se le proteste fossero sincere espressioni di indignazione o motivate dall’antisemitismo, come alcuni avevano sostenuto. Ma le cose non sono andate come previsto.
Quando sono arrivato all’ingresso dell’aula, ho visto un gruppo di studenti riuniti. Ben presto è emerso che non erano lì per assistere all’evento, ma per protestare contro di esso. Gli studenti erano stati convocati, a quanto pare, da un messaggio WhatsApp diffuso il giorno prima, che segnalava la conferenza e invitava all’azione: “Non lo permetteremo! Per quanto tempo ancora commetteremo un tradimento contro noi stessi?!?!?!?!!”.
Il messaggio proseguiva sostenendo che avevo firmato una petizione che descriveva Israele come un “regime di apartheid” (in realtà, la petizione si riferiva a un regime di apartheid in Cisgiordania). Sono stato anche “accusato” di aver scritto un articolo per il New York Times, nel novembre 2023, in cui affermavo che, sebbene le dichiarazioni dei leader israeliani suggerissero un intento genocida, c’era ancora tempo per impedire a Israele di perpetrare un genocidio. Su questo punto ero colpevole. Anche l’organizzatore dell’evento, l’illustre geografo Oren Yiftachel, è stato criticato. Tra i suoi reati c’è quello di essere stato direttore dell’organizzazione “antisionista” B’Tselem, una ONG per i diritti umani rispettata in tutto il mondo.
Mentre i partecipanti alla tavola rotonda e una manciata di membri della facoltà, per lo più anziani, entravano nella sala, le guardie di sicurezza hanno impedito l’ingresso agli studenti che protestavano. Ma non hanno impedito loro di tenere aperta la porta dell’aula, gridando slogan con un megafono e sbattendo con tutte le loro forze sui muri.
Dopo oltre un’ora di disordini, abbiamo convenuto che forse la scelta migliore sarebbe stata quella di chiedere agli studenti manifestanti di unirsi a noi per una conversazione, a condizione che cessassero i disordini. Alla fine un discreto numero di questi attivisti è entrato e per le due ore successive ci siamo seduti a parlare. Come si è scoperto, la maggior parte di questi giovani uomini e donne erano da poco tornati dal servizio di riserva, durante il quale erano stati dispiegati nella Striscia di Gaza.
Non si è trattato di uno scambio di opinioni amichevole o “positivo”, ma è stato rivelatore. Questi studenti non erano necessariamente rappresentativi del corpo studentesco israeliano nel suo complesso. Erano attivisti di organizzazioni di estrema destra. Ma per molti versi, quello che dicevano rifletteva un sentimento molto più diffuso nel paese.
Non andavo in Israele dal giugno 2023 e durante questa recente visita ho trovato un paese diverso da quello che conoscevo. Anche se ho lavorato all’estero per molti anni, Israele è il luogo in cui sono nato e cresciuto. È il luogo in cui i miei genitori hanno vissuto e sono sepolti; è il luogo in cui mio figlio ha creato la sua famiglia e in cui vive la maggior parte dei miei più vecchi e migliori amici. Conoscendo il paese dall’interno e avendo seguito gli eventi ancora più da vicino del solito dal 7 ottobre, non sono stato del tutto sorpreso da ciò che ho incontrato al mio ritorno, ma è stato comunque profondamente inquietante.
Nel riflettere su questi temi, non posso non attingere al mio bagaglio personale e professionale. Ho prestato servizio nelle Forze di Difesa Israeliane (IDF) per quattro anni, un periodo che ha incluso la guerra dello Yom Kippur del 1973 e le missioni in Cisgiordania, nel Sinai settentrionale e a Gaza, concludendo il mio servizio come comandante di compagnia di fanteria. Durante il mio periodo a Gaza, ho visto in prima persona la povertà e la disperazione dei rifugiati palestinesi che si arrangiano per vivere in quartieri congestionati e decrepiti. Ricordo soprattutto di aver pattugliato le strade silenziose e senza ombra della città egiziana di ʿArīsh – allora occupata da Israele – trafitto dagli sguardi della popolazione impaurita e risentita che ci osservava dalle finestre chiuse. Per la prima volta ho capito cosa significa occupare un altro popolo.
Il servizio militare è obbligatorio per gli ebrei israeliani al compimento del 18° anno di età – anche se ci sono alcune eccezioni – ma in seguito si può sempre essere chiamati a prestare servizio nell’IDF, per addestramento o compiti operativi, o in caso di emergenze come una guerra. Quando sono stato chiamato nel 1976, ero uno studente universitario che studiava all’Università di Tel Aviv. Durante il mio primo impiego come ufficiale della riserva, sono stato gravemente ferito in un incidente di addestramento, insieme a una ventina di miei soldati. L’IDF insabbiò le circostanze di questo evento, che fu causato dalla negligenza del comandante della base di addestramento. Trascorsi la maggior parte di quel primo semestre nell’ospedale di Be’er Sheva, ma ripresi gli studi, laureandomi nel 1979 con una specializzazione in storia.
Queste esperienze personali mi hanno reso ancora più interessato a una questione che mi preoccupava da tempo: cosa spinge i soldati a combattere? Nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, molti sociologi americani sostenevano che i soldati combattono prima di tutto per gli altri, piuttosto che per un obiettivo ideologico più grande. Ma questo non corrispondeva a ciò che avevo sperimentato come soldato: credevamo di combattere per una causa più grande che superava il nostro gruppo di compagni. Quando ho completato la mia laurea, ho anche iniziato a chiedermi se, in nome di quella causa, si potesse far agire i soldati in modi che altrimenti avrebbero trovato riprovevoli.
Prendendo il caso estremo, scrissi la mia tesi di dottorato a Oxford, poi pubblicata come libro, sull’indottrinamento nazista dell’esercito tedesco e sui crimini da esso perpetrati sul fronte orientale nella seconda guerra mondiale. Ciò che ho scoperto è in contrasto con il modo in cui i tedeschi degli anni ’80 intendevano il loro passato. Preferivano pensare che l’esercito avesse combattuto una guerra “decente”, anche se la Gestapo e le SS avevano perpetrato un genocidio “alle sue spalle”. Ci sono voluti molti altri anni perché i tedeschi si rendessero conto di quanto i loro stessi padri e nonni fossero stati complici dell’Olocausto e dell’assassinio di massa di molti altri gruppi nell’Europa orientale e nell’Unione Sovietica.
Quando alla fine del 1987 scoppiò la prima intifada, o rivolta palestinese, insegnavo all’Università di Tel Aviv. Rimasi sconcertato dalle istruzioni impartite da Yitzhak Rabin, allora ministro della Difesa, all’IDF di “spezzare le braccia e le gambe” ai giovani palestinesi che lanciavano sassi contro le truppe pesantemente armate. Gli scrissi una lettera per avvertirlo che, sulla base delle mie ricerche sull’indottrinamento delle forze armate della Germania nazista, temevo che sotto la sua guida l’IDF si stesse avviando su una strada altrettanto scivolosa.
Come ha dimostrato la mia ricerca, già prima dell’arruolamento i giovani tedeschi avevano interiorizzato gli elementi fondamentali dell’ideologia nazista, in particolare l’idea che le masse slave subumane, guidate dagli insidiosi ebrei bolscevichi, minacciassero di distruzione la Germania e il resto del mondo civilizzato, e che quindi la Germania avesse il diritto e il dovere di creare per sé uno “spazio vitale” a est e di decimare o ridurre in schiavitù la popolazione di quella regione. Questa visione del mondo fu poi ulteriormente inculcata alle truppe, in modo che, quando marciarono verso l’Unione Sovietica, percepissero i loro nemici attraverso questo prisma. La feroce resistenza opposta dall’Armata Rossa non fece altro che confermare la necessità di distruggere completamente i soldati e i civili sovietici, e soprattutto gli ebrei, considerati i principali istigatori del bolscevismo. Più distruzione veniva perpetrata, più le truppe tedesche temevano la vendetta che avrebbero potuto aspettarsi se i loro nemici avessero prevalso. Il risultato fu l’uccisione di circa 30 milioni di soldati e cittadini sovietici.
Con mio grande stupore, pochi giorni dopo avergli scritto, ho ricevuto una risposta di una riga da Rabin, che mi rimproverava per aver osato paragonare l’IDF all’esercito tedesco. Questo mi ha dato l’opportunità di scrivergli una lettera più dettagliata, spiegando la mia ricerca e la mia preoccupazione per un uso dell’IDF come strumento di oppressione contro civili occupati disarmati. Rabin rispose di nuovo, con la stessa affermazione: “Come osa paragonare l’IDF alla Wehrmacht?”. A posteriori, però, credo che questo scambio abbia rivelato qualcosa sul suo successivo percorso intellettuale. Infatti, come sappiamo dal suo successivo impegno nel processo di pace di Oslo, per quanto imperfetto, alla fine riconobbe che nel lungo periodo Israele non avrebbe potuto sostenere il prezzo militare, politico e morale dell’occupazione.
Dal 1989 insegno negli Stati Uniti. Ho scritto molto su guerra, genocidio, nazismo, antisemitismo e Olocausto, cercando di capire i legami tra l’uccisione su scala industriale dei soldati nella prima guerra mondiale e lo sterminio delle popolazioni civili da parte del regime di Hitler. Tra gli altri progetti, ho trascorso molti anni a fare ricerche sulla trasformazione della città natale di mia madre – Buchach, allora in Polonia, oggi in Ucraina – da comunità di coesistenza interetnica a comunità in cui, sotto l’occupazione nazista, la popolazione “gentile” si è rivolta contro i vicini ebrei. Mentre i tedeschi arrivarono in città con l’obiettivo esplicito di uccidere gli ebrei, la velocità e l’efficienza delle uccisioni furono notevolmente facilitate dalla collaborazione locale. Questi “locali” erano motivati da risentimenti e odi preesistenti che possono essere ricondotti all’ascesa dell’etnonazionalismo nei decenni precedenti e all’opinione prevalente che gli ebrei non appartenessero ai nuovi stati nazionali creati dopo la prima guerra mondiale.
Nei mesi successivi al 7 ottobre, ciò che ho imparato nel corso della mia vita e della mia carriera è diventato più dolorosamente attuale che mai. Come molti altri, ho trovato questi ultimi mesi emotivamente e intellettualmente impegnativi. Come molti altri, anche i membri delle mie famiglie e di quelle dei miei amici sono stati direttamente colpiti dalla violenza. Non c’è carenza di dolore ovunque ci si giri.
L’attacco di Hamas del 7 ottobre è stato uno shock tremendo per la società israeliana, dal quale non si è ancora ripresa. È stata la prima volta che Israele ha perso il controllo di una parte del suo territorio per un periodo di tempo prolungato, con l’IDF incapace di impedire il massacro di oltre 1.200 persone – molte delle quali uccise nei modi più crudeli che si possano immaginare – e la presa di oltre 200 ostaggi, tra cui decine di bambini. Il senso di abbandono da parte dello stato e di continua insicurezza – con decine di migliaia di cittadini israeliani ancora sfollati dalle loro case lungo la Striscia di Gaza e al confine con il Libano – è profondo.
Oggi, in vaste fasce dell’opinione pubblica israeliana, compresi coloro che si oppongono al governo, due sentimenti regnano sovrani.
Il primo è una combinazione di rabbia e paura, un desiderio di ristabilire la sicurezza ad ogni costo e una totale sfiducia nelle soluzioni politiche, nei negoziati e nella riconciliazione. Il teorico militare Carl von Clausewitz ha osservato che la guerra è l’estensione della politica con altri mezzi e ha avvertito che, senza un obiettivo politico definito, avrebbe portato a una distruzione senza limiti. Il sentimento che ora prevale in Israele minaccia analogamente di fare della guerra il proprio fine. In questa visione, la politica è un ostacolo al raggiungimento degli obiettivi piuttosto che un mezzo per limitare la distruzione. È una visione che non può che portare all’auto-annichilimento.
Il secondo sentimento dominante – o meglio, la mancanza di sentimento – è il rovescio della medaglia del primo. È l’assoluta incapacità della società israeliana di oggi di provare empatia per la popolazione di Gaza. La maggioranza, a quanto pare, non vuole nemmeno sapere cosa sta succedendo a Gaza, e questo desiderio si riflette nella copertura televisiva. I notiziari televisivi israeliani di questi giorni iniziano solitamente con i servizi sui funerali dei soldati, invariabilmente descritti come eroi, caduti nei combattimenti a Gaza, seguiti dalle stime sul numero di combattenti di Hamas “liquidati”. I riferimenti ai morti civili palestinesi sono rari e normalmente vengono presentati come parte della propaganda nemica o come causa di sgradite pressioni internazionali. Di fronte a tante morti, questo silenzio assordante sembra ora una forma di vendetta.
Certo, l’opinione pubblica israeliana si è abituata da tempo alla brutale occupazione che ha caratterizzato il paese per 57 dei 76 anni della sua esistenza. Ma la portata di ciò che viene perpetrato a Gaza in questo momento dall’IDF è senza precedenti, così come la completa indifferenza della maggior parte degli israeliani nei confronti di ciò che viene fatto in loro nome. Nel 1982, centinaia di migliaia di israeliani protestarono contro il massacro della popolazione palestinese nei campi profughi di Sabra e Shatila, nella parte occidentale di Beirut, da parte delle milizie cristiane maronite, agevolate dall’IDF. Oggi questo tipo di risposta è inconcepibile. Il modo in cui gli occhi della gente si velano quando si parla della sofferenza dei civili palestinesi e della morte di migliaia di bambini, donne e anziani è profondamente sconvolgente.
Incontrando i miei amici in Israele questa volta, ho avuto spesso la sensazione che temessero che io potessi turbare il loro dolore e che, vivendo fuori dal paese, non potessi cogliere il loro dolore, la loro ansia, il loro smarrimento e la loro impotenza. Qualsiasi suggerimento sul fatto che vivere in campagna li avesse resi insensibili al dolore degli altri – il dolore che, dopo tutto, veniva inflitto in loro nome – produceva solo un muro di silenzio, un ripiegamento su se stessi o un rapido cambio di argomento. L’impressione che ho avuto è stata coerente: non abbiamo spazio nei nostri cuori, non abbiamo spazio nei nostri pensieri, non vogliamo parlare o farci mostrare quello che i nostri soldati, i nostri figli o nipoti, i nostri fratelli e sorelle, stanno facendo in questo momento a Gaza. Dobbiamo concentrarci su noi stessi, sul nostro trauma, sulla paura e sulla rabbia.
In un’intervista condotta il 7 marzo 2024, lo scrittore, agricoltore e scienziato Zeev Smilansky ha espresso questo sentimento in un modo che ho trovato scioccante, proprio perché proveniva da lui. Conosco Smilansky da più di mezzo secolo, ed è il figlio del celebre scrittore israeliano S. Yizhar, la cui novella Khirbet Khizeh del 1949 è stato il primo testo della letteratura israeliana ad affrontare l’ingiustizia della Nakba, l’espulsione di 750.000 palestinesi da quello che è diventato lo stato di Israele nel 1948. Parlando di suo figlio Offer, che vive a Bruxelles, Smilansky ha commentato:
Offer dice che per lui ogni bambino è un bambino, non importa se sta a Gaza o qui. Io non la penso come lui. I nostri bambini qui sono più importanti per me. Lì c’è uno scioccante disastro umanitario, lo capisco, ma il mio cuore è bloccato e pieno dei nostri bambini e dei nostri ostaggi… Non c’è spazio nel mio cuore per i bambini di Gaza, per quanto sia scioccante e terrificante e anche se so che la guerra non è la soluzione.
Ascolto Maoz Inon, che ha perso entrambi i genitori [uccisi da Hamas il 7 ottobre]… e che parla in modo così bello e convincente della necessità di guardare avanti, che dobbiamo portare speranza e volere la pace, perché le guerre non porteranno a nulla, e sono d’accordo con lui. Sono d’accordo con lui, ma non riesco a trovare la forza nel mio cuore, con tutte le mie inclinazioni di sinistra e il mio amore per l’umanità, non ci riesco… Non è solo Hamas, sono tutti i gazesi che sono d’accordo sul fatto che è giusto uccidere i bambini ebrei, che questa è una causa degna… Con la Germania c’è stata una riconciliazione, ma si sono scusati e hanno pagato i risarcimenti, e cosa succederà qui? Anche noi abbiamo fatto cose terribili, ma niente che si avvicini a quello che è successo qui il 7 ottobre. Sarà necessario riconciliarsi, ma abbiamo bisogno di una certa distanza.
Questo era un sentimento diffuso tra molti amici e conoscenti liberali e di sinistra con cui ho parlato in Israele. Naturalmente, era molto diverso da quello che i politici e i media di destra hanno detto dopo il 7 ottobre. Molti dei miei amici riconoscono l’ingiustizia dell’occupazione e, come ha detto Smilansky, professano “amore per l’umanità”. Ma in questo momento, in queste circostanze, non è su questo che si concentrano. Sentono invece che nella lotta tra la giustizia e l’esistenza, l’esistenza deve vincere, e nella lotta tra una causa giusta e un’altra – quella degli israeliani e quella dei palestinesi – è la nostra causa che deve trionfare, a qualunque prezzo. A chi dubita di questa scelta netta, l’Olocausto viene presentato come un’alternativa, per quanto irrilevante per il momento attuale.
Questo sentimento non è apparso improvvisamente il 7 ottobre. Le sue radici sono molto più profonde.
Il 30 aprile 1956, Moshe Dayan, allora capo di stato maggiore dell’IDF, tenne un breve discorso che sarebbe diventato uno dei più famosi della storia di Israele. Si rivolgeva ai fedeli in occasione del funerale di Ro’i Rothberg, un giovane agente di sicurezza del neonato kibbutz Nahal Oz, fondato dall’IDF nel 1951 e diventato una comunità civile due anni dopo. Il kibbutz si trovava a poche centinaia di metri dal confine con la Striscia di Gaza, di fronte al quartiere palestinese di Shuja’iyya.
Rothberg era stato ucciso il giorno prima e il suo corpo fu trascinato oltre il confine e mutilato, prima di essere restituito alle mani israeliane con l’aiuto delle Nazioni Unite. Il discorso di Dayan è diventato una dichiarazione iconica, utilizzata sia dalla destra che dalla sinistra politica fino ad oggi:
Ieri mattina Ro’i è stato assassinato. Abbagliato dalla calma del mattino, non ha visto coloro che lo aspettavano in agguato ai margini del solco. Oggi non accusiamo gli assassini. Perché dovremmo biasimarli per il loro odio bruciante nei nostri confronti? Da otto anni vivono nei campi profughi di Gaza, mentre davanti ai loro occhi abbiamo trasformato la terra e i villaggi in cui loro e i loro antenati abitavano in una nostra proprietà.
Non dovremmo cercare il sangue di Roi dagli arabi di Gaza, ma da noi stessi. Come abbiamo fatto a chiudere gli occhi e a non affrontare apertamente il nostro destino, a non affrontare la missione della nostra generazione in tutta la sua crudeltà? Abbiamo forse dimenticato che questo gruppo di ragazzi, che abita a Nahal Oz, porta sulle spalle i pesanti cancelli di Gaza, dall’altra parte dei quali si affollano centinaia di migliaia di occhi e di mani che pregano per il nostro momento di debolezza, in modo da poterci fare a pezzi?
Siamo la generazione dell’insediamento; senza un elmetto d’acciaio e la canna del cannone non potremo piantare un albero e costruire una casa. I nostri figli non avranno una vita se non scaviamo rifugi, e senza filo spinato e mitragliatrici non potremo pavimentare strade e scavare pozzi d’acqua. Milioni di ebrei che sono stati sterminati perché non avevano una terra ci guardano dalle ceneri della storia di Israele e ci ordinano di insediarci e far risorgere una terra per il nostro popolo. Ma al di là del solco della frontiera sorge un oceano di odio e di desiderio di vendetta, in attesa del momento in cui la calma smusserà la nostra prontezza, del giorno in cui daremo ascolto agli ambasciatori dell’ipocrisia cospiratrice, che ci invitano a deporre le armi…
Non perdiamo di vista il disgusto che accompagna e riempie la vita di centinaia di migliaia di arabi che abitano intorno a noi e che attendono il momento in cui potranno raggiungere il nostro sangue. Non distogliamo lo sguardo per evitare che le nostre mani si indeboliscano. Questo è il destino della nostra generazione. Questa è la scelta della nostra vita: essere pronti e armati, forti e tenaci. Perché se la spada cade dal nostro pugno, le nostre vite saranno stroncate.
Il giorno seguente, Dayan registrò il suo discorso per la radio israeliana. Ma mancava qualcosa. Mancava il riferimento ai rifugiati che guardavano gli ebrei coltivare le terre da cui erano stati sfrattati e che non dovevano essere biasimati per l’odio verso i loro espropriatori. Sebbene avesse pronunciato queste frasi al funerale e le avesse scritte successivamente, Dayan scelse di ometterle dalla versione registrata. Anche lui aveva conosciuto questa terra prima del 1948.
Ricordava i villaggi e le città palestinesi distrutti per far posto ai coloni ebrei. Comprendeva chiaramente la rabbia dei rifugiati al di là della barriera. Ma credeva anche fermamente nel diritto e nell’urgente necessità di un insediamento e di uno stato ebraico. Nella lotta tra affrontare l’ingiustizia e conquistare la terra, scelse la sua parte, sapendo che ciò avrebbe condannato il suo popolo a dipendere per sempre dalle armi. Dayan sapeva anche bene cosa poteva accettare l’opinione pubblica israeliana. È proprio a causa della sua ambivalenza sull’individuazione della colpa e della responsabilità dell’ingiustizia e della violenza, e della sua visione deterministica e tragica della storia, che le due versioni del suo discorso finirono per interessare orientamenti politici molto diversi.
Decenni dopo, dopo molte altre guerre e fiumi di sangue, Dayan intitolò il suo ultimo libro Shall the Sword Devour Forever? Pubblicato nel 1981, il libro descriveva il suo ruolo nel raggiungimento di un accordo di pace con l’Egitto due anni prima. Aveva finalmente appreso la verità della seconda parte del versetto biblico da cui prese il titolo del libro: “Non sai che nell’ultima fine ci sarà amarezza?”.
Ma nel suo discorso del 1956, con i suoi riferimenti al trasporto dei pesanti cancelli di Gaza e ai palestinesi in attesa di un momento di debolezza, Dayan stava alludendo alla storia biblica di Sansone. Come i suoi ascoltatori avranno ricordato, l’israelita Sansone, la cui forza sovrumana derivava dai suoi lunghi capelli, aveva l’abitudine di visitare le prostitute di Gaza. I Filistei, che lo consideravano un nemico mortale, speravano di tendergli un’imboscata alle porte chiuse della città. Ma Sansone si limitò a sollevare i cancelli sulle spalle e a camminare liberamente. Solo quando la sua amante Dalila lo ingannò e gli tagliò i capelli, i Filistei poterono catturarlo e imprigionarlo, rendendolo ancora più impotente e cavandogli gli occhi (come avrebbero fatto anche i gazani che mutilarono Ro’i). Ma in un’ultima prova di coraggio, mentre viene deriso dai suoi carcerieri, Sansone invoca l’aiuto di Dio, afferra le colonne del tempio a cui era stato condotto e lo fa crollare sulla folla festante che lo circonda, gridando: “Lasciatemi morire con i Filistei!”.
Quelle porte di Gaza sono profondamente radicate nell’immaginario sionista israeliano, simbolo della divisione tra noi e i “barbari”. Nel caso di Ro’i, afferma Dayan, “il desiderio di pace gli tappò le orecchie e non sentì la voce dell’omicidio in agguato. Le porte di Gaza pesavano troppo sulle sue spalle e lo hanno fatto cadere”.
L’8 ottobre 2023, il presidente Isaac Herzog si è rivolto al pubblico israeliano citando l’ultima frase del discorso di Dayan: “Questo è il destino della nostra generazione. Questa è la scelta della nostra vita: essere pronti e armati, forti e tenaci. Perché se la spada cade dal nostro pugno, le nostre vite saranno tagliate”. Il giorno precedente, 67 anni dopo la morte di Ro’i, i militanti di Hamas avevano ucciso 15 residenti del kibbutz Nahal Oz e preso otto ostaggi. Dopo l’invasione di Gaza da parte di Israele, il quartiere palestinese di Shuja’iyya, di fronte al kibbutz, dove vivevano 100.000 persone, è stato svuotato della sua popolazione e trasformato in un enorme cumulo di macerie.
Uno dei rari tentativi letterari di esporre la triste logica delle guerre israeliane è lo straordinario poema di Anadad Eldan del 1971, Samson Tearing His Clothes(Sansone si strappa i vestiti), in cui l’antico eroe ebraico entra ed esce da Gaza, lasciando solo desolazione sulle sue tracce. Sono venuto a conoscenza di questa poesia grazie all’eccezionale saggio in lingua ebraica di Arie Dubnov, “The Gates of Gaza”, pubblicato nel gennaio 2024. L’eroe Sansone, il profeta, il soggiogatore dell’eterno nemico della nazione, si trasforma nel suo angelo della morte, una morte che, come ricordiamo, finisce per portare anche su di sé in una grandiosa azione suicida che ha riecheggiato attraverso le generazioni fino ai giorni nostri.
Quando sono andato
a Gaza ho incontrato
Sansone che usciva strappandosi i vestiti
sul suo volto graffiato scorrevano fiumi
e le case si piegavano per lasciarlo
passare
i suoi dolori sradicavano alberi e si impigliavano
nelle radici aggrovigliate.
Nelle radici c’erano ciocche dei suoi
capelli.
La sua testa brillava come un teschio di roccia
e i suoi passi incerti strappavano le mie lacrime.
Sansone camminava trascinando un sole stanco
vetri di finestre in frantumi e catene nel mare di Gaza
sono stati annegati. Ho sentito come
la terra gemeva sotto i suoi passi,
come le squarciò le budella. Le scarpe di Sansone
stridevano quando camminava.
Nato in Polonia nel 1924 con il nome di Avraham Bleiberg, Eldan arrivò in Palestina da bambino, combatté nella guerra del 1948 e nel 1960 si trasferì nel kibbutz Be’eri, a circa 4 km dalla Striscia di Gaza. Il 7 ottobre 2023, il 99enne Eldan e sua moglie sono sopravvissuti al massacro di un centinaio di abitanti del kibbutz, quando i militanti entrati nella loro casa li hanno inspiegabilmente risparmiati.
Dopo il 7 ottobre, sulla scia della miracolosa sopravvivenza di questo oscuro poeta, un’altra sua opera è stata ampiamente condivisa dai media israeliani. Sembrava infatti che Eldan, da sempre cronista del dolore e della sofferenza causati dall’oppressione e dall’ingiustizia, avesse previsto la catastrofe che si è abbattuta sulla sua casa. Nel 2016 aveva pubblicato una raccolta di poesie dal titolo Sei l’ora dell’alba. Era l’ora in cui è iniziato l’attacco di Hamas. Il libro contiene la straziante poesia Sulle mura di Be’eri, che piange la morte della figlia per malattia (in ebraico il nome del kibbutz significa anche “il mio pozzo”).
All’indomani del 7 ottobre, il poema sembra inquietantemente prevedere la distruzione e trasmettere una certa visione del sionismo, che ha origine nella catastrofe e nella disperazione diasporica, portando la nazione in una terra maledetta dove i bambini vengono sepolti dai genitori, pur mantenendo la speranza di un’alba nuova e piena di speranza:
Sui muri di Be’eri ho scritto la sua storia
da origini e profondità sfilacciate dal freddo
quando leggevano ciò che accadeva nel dolore e le sue luci
nella nebbia e nell’oscurità della notte e un urlo ha generato una
preghiera, perché i suoi figli sono caduti e una porta è chiusa a chiave
per la grazia del cielo respirano desolazione e dolore
chi consolerà i genitori inconsolabili, perché una maledizione
sussurra: “Non ci sia né rugiada né pioggia, potete piangere se potete”.
c’è un tempo in cui le tenebre ruggiscono, ma c’è l’alba e la luce.
Come l’elogio di Dayan per Ro’i, “Sulle mura di Be’eri”significa cose diverse per persone diverse. Deve essere letto come un lamento per la distruzione di un bellissimo e innocente kibbutz nel deserto, o è un grido di dolore per l’infinita e sanguinosa vendetta tra i due popoli di questa terra? Il poeta non ci ha detto il suo significato, come è consuetudine dei poeti. Dopotutto, l’ha scritta anni fa in segno di lutto per la sua amata figlia. Ma visti i suoi molti anni di lavoro silenzioso, preciso e tagliente, non sembra fantasioso credere che la poesia fosse un appello alla riconciliazione e alla coesistenza, piuttosto che a ulteriori cicli di spargimento di sangue e di vendetta.
Si dà il caso che io abbia un legame personale con il kibbutz Be’eri. È il luogo in cui è cresciuta mia nuora e il mio viaggio in Israele a giugno è stato principalmente per visitare i due gemelli – i miei nipoti – che lei ha messo al mondo nel gennaio 2024. Il kibbutz, però, era stato abbandonato. Mio figlio, mia nuora e i loro figli si erano trasferiti in un appartamento sfitto nelle vicinanze con una famiglia di sopravvissuti – parenti stretti, il cui padre è ancora tenuto in ostaggio – creando una combinazione inimmaginabile di nuova vita e dolore inconsolabile in un’unica casa.
Oltre a vedere la famiglia, ero venuto in Israele anche per incontrare gli amici. Speravo di dare un senso a ciò che era accaduto nel paese dall’inizio della guerra. La conferenza interrotta all’università non era in cima alla mia agenda. Ma una volta arrivato nell’aula magna, quel giorno di metà giugno, ho capito subito che questa situazione esplosiva poteva anche fornire alcuni indizi per capire la mentalità di una giovane generazione di studenti e soldati.
Dopo che ci siamo seduti e abbiamo iniziato a parlare, mi è apparso chiaro che gli studenti volevano essere ascoltati e che nessuno, forse nemmeno i loro professori e amministratori universitari, era interessato ad ascoltare. La mia presenza, e la loro vaga conoscenza delle mie critiche alla guerra, hanno scatenato in loro il bisogno di spiegare a me, ma forse anche a se stessi, in cosa erano stati coinvolti come soldati e come cittadini.
Una giovane donna, da poco tornata da un lungo servizio militare a Gaza, è salita sul palco e ha parlato con forza degli amici che aveva perso, della natura malvagia di Hamas e del fatto che lei e i suoi compagni si stavano sacrificando per garantire la sicurezza futura del paese. Profondamente sconvolta, ha iniziato a piangere a metà del suo discorso e si è ritirata. Un giovane uomo, raccolto e articolato, ha respinto il mio suggerimento secondo cui le critiche alle politiche israeliane non sono necessariamente motivate dall’antisemitismo. Si è quindi lanciato in una breve rassegna della storia del sionismo come risposta all’antisemitismo e come percorso politico che nessun “gentile” aveva il diritto di negare. Sebbene fossero turbati dalle mie opinioni e agitati dalle loro recenti esperienze a Gaza, le opinioni espresse dagli studenti non erano affatto eccezionali. Riflettevano un’ampia fetta dell’opinione pubblica israeliana.
Sapendo che in precedenza avevo messo in guardia dal genocidio, gli studenti erano particolarmente desiderosi di dimostrarmi che erano umani, che non erano assassini.
Non avevano dubbi sul fatto che l’IDF fosse, di fatto, l’esercito più morale del mondo. Ma erano anche convinti che qualsiasi danno arrecato alle persone e agli edifici di Gaza fosse totalmente giustificato, che fosse tutta colpa di Hamas che li usava come scudi umani.
Mi hanno mostrato foto sui loro telefoni per dimostrare che si erano comportati in modo ammirevole con i bambini, hanno negato che a Gaza ci fosse la fame, hanno insistito sul fatto che la distruzione sistematica di scuole, università, ospedali, edifici pubblici, abitazioni e infrastrutture fosse necessaria e giustificabile. Hanno considerato qualsiasi critica alle politiche israeliane da parte di altri paesi e delle Nazioni Unite come semplicemente antisemita.
A differenza della maggioranza degli israeliani, questi giovani avevano visto con i loro occhi la distruzione di Gaza. Mi è sembrato che non solo avessero interiorizzato un particolare punto di vista diventato comune in Israele – ovvero che la distruzione di Gaza in quanto tale fosse una risposta legittima al 7 ottobre – ma che avessero anche sviluppato un modo di pensare che avevo osservato molti anni fa studiando la condotta, la visione del mondo e la percezione di sé dei soldati dell’esercito tedesco nella seconda guerra mondiale. Avendo interiorizzato alcune visioni del nemico – i bolscevichi come Untermenschen; Hamas come animali umani – e della popolazione in generale come meno che umana e non meritevole di diritti, i soldati che osservano o perpetrano atrocità tendono ad attribuirle non ai propri militari o a se stessi, ma al nemico.
Migliaia di bambini sono stati uccisi? È colpa del nemico. I nostri stessi bambini sono stati uccisi? È certamente colpa del nemico. Se Hamas compie un massacro in un kibbutz, sono nazisti. Se sganciamo bombe da 2.000 libbre sui rifugiati e uccidiamo centinaia di civili, è colpa di Hamas che si nasconde vicino a questi rifugi. Dopo quello che ci hanno fatto, non abbiamo altra scelta che estirparli. Dopo quello che abbiamo fatto a loro, possiamo solo immaginare cosa ci farebbero se non li distruggessimo. Semplicemente non abbiamo scelta.
A metà luglio del 1941, poche settimane dopo che la Germania aveva lanciato quella che Hitler aveva proclamato essere una “guerra di annientamento” contro l’Unione Sovietica, un sottufficiale tedesco scrisse a casa dal fronte orientale:
Il popolo tedesco ha un grande debito nei confronti del nostro Führer, perché se queste bestie, che sono i nostri nemici qui, fossero venute in Germania, sarebbero avvenuti omicidi che il mondo non ha mai visto prima… Ciò che abbiamo visto… rasenta l’incredibile… E quando si legge Der Stürmer [un giornale nazista] e si guardano le immagini, è solo una debole illustrazione di ciò che vediamo qui e dei crimini commessi qui dagli ebrei.
Un opuscolo di propaganda dell’esercito pubblicato nel giugno del 1941 dipinge un’immagine da incubo simile degli ufficiali politici dell’Armata Rossa, che molti soldati percepirono presto come un riflesso della realtà:
Chiunque abbia mai guardato il volto di un commissario rosso sa come sono i bolscevichi. Qui non c’è bisogno di espressioni teoriche. Insulteremmo gli animali se descrivessimo questi uomini, per lo più ebrei, come bestie. Sono l’incarnazione dell’odio satanico e folle contro l’intera nobile umanità… [Avrebbero] posto fine a ogni vita significativa, se questa eruzione non fosse stata arginata all’ultimo momento.
Due giorni dopo l’attacco di Hamas, il ministro della Difesa Yoav Gallant ha dichiarato: “Stiamo combattendo contro animali umani e dobbiamo agire di conseguenza”, aggiungendo poi che Israele avrebbe “distrutto un quartiere dopo l’altro a Gaza”. L’ex primo ministro Naftali Bennett ha confermato: “Stiamo combattendo contro i nazisti”. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha esortato gli israeliani a “ricordare ciò che Amalek vi ha fatto”, alludendo alla chiamata biblica a sterminare “uomini e donne, bambini e neonati” di Amalek. In un’intervista radiofonica, ha detto di Hamas: “Non li chiamo animali umani perché sarebbe un insulto agli animali”. Il vicepresidente della Knesset Nissim Vaturi ha scritto su X che l’obiettivo di Israele dovrebbe essere “cancellare la Striscia di Gaza dalla faccia della Terra”. Alla TV israeliana ha dichiarato: “Non ci sono persone non coinvolte… dobbiamo andare lì e uccidere, uccidere, uccidere. Dobbiamo ucciderli prima che loro uccidano noi”. Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha sottolineato in un discorso: “L’opera deve essere completata… Distruzione totale. ‘Cancellate il ricordo di Amalek da sotto il cielo’”. Avi Dichter, ministro dell’Agricoltura ed ex capo del servizio di intelligence Shin Bet, ha parlato di “far rotolare la Nakba di Gaza”. Un veterano militare israeliano di 95 anni, il cui discorso motivazionale alle truppe dell’IDF che si preparavano all’invasione di Gaza le esortava a “cancellare la memoria, le loro famiglie, le loro madri e i loro figli”, ha ricevuto un certificato d’onore dal presidente israeliano Herzog per aver “fornito un meraviglioso esempio a generazioni di soldati”. Non c’è da stupirsi che ci siano stati innumerevoli post sui social media da parte delle truppe dell’IDF a Gaza che chiedevano di “uccidere gli arabi”, “bruciare le loro madri” e “spianare” Gaza. Non si conoscono azioni disciplinari da parte dei loro comandanti.
Questa è la logica della violenza senza fine, una logica che permette di distruggere intere popolazioni e di sentirsi totalmente giustificati nel farlo. È una logica di vittimismo – dobbiamo ucciderli prima che loro uccidano noi, come hanno fatto in passato – e niente dà più potere alla violenza di un giusto senso di vittimismo. Guardate cosa ci è successo nel 1918, dicevano i soldati tedeschi nel 1942, ricordando il mito propagandistico della “pugnalata alla schiena”, che attribuiva la catastrofica sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale al tradimento degli ebrei e dei comunisti. Guardate cosa ci è successo nell’Olocausto, quando abbiamo confidato che altri sarebbero venuti in nostro soccorso, dicono le truppe dell’IDF nel 2024, dandosi così licenza di distruzione indiscriminata sulla base di una falsa analogia tra Hamas e i nazisti.
I giovani uomini e le donne con cui ho parlato quel giorno erano pieni di rabbia, non tanto contro di me – si sono un po’ calmati quando ho parlato del mio servizio militare – ma perché, credo, si sentivano traditi da tutti quelli che li circondavano. Traditi dai media, che percepivano come troppo critici, dai comandanti anziani che ritenevano troppo indulgenti nei confronti dei palestinesi, dai politici che non erano riusciti a prevenire il fiasco del 7 ottobre, dall’incapacità dell’IDF di raggiungere la “vittoria totale”, dagli intellettuali e dalla sinistra che li criticavano ingiustamente, dal governo degli Stati Uniti per non aver fornito abbastanza munizioni in tempi rapidi e da tutti quei politici europei ipocriti e dagli studenti antisemiti che protestavano contro le loro azioni a Gaza. Sembravano impauriti, insicuri e confusi, e alcuni probabilmente soffrivano anche di stress post-traumatico.
Ho raccontato loro la storia di come, nel 1930, il sindacato studentesco tedesco fu democraticamente conquistato dai nazisti. Gli studenti di allora si sentivano traditi dalla sconfitta della prima guerra mondiale, dalla perdita di opportunità a causa della crisi economica e dalla perdita di terra e prestigio a seguito dell’umiliante trattato di pace di Versailles. Volevano che la Germania tornasse grande e Hitler sembrava in grado di mantenere questa promessa. I nemici interni della Germania furono eliminati, la sua economia fiorì, le altre nazioni la temevano di nuovo, ma poi entrò in guerra, conquistò l’Europa e uccise milioni di persone. Infine, il paese fu completamente distrutto. Mi sono chiesto ad alta voce se forse i pochi studenti tedeschi sopravvissuti a quei 15 anni si siano pentiti della decisione presa nel 1930 di sostenere il nazismo. Ma non credo che i giovani uomini e donne dell’università di Tel Aviv abbiano compreso le implicazioni di ciò che avevo detto loro.
Gli studenti erano spaventati e impauriti allo stesso tempo, e la loro paura li rendeva ancora più aggressivi. Questo livello di minaccia, così come un certo grado di sovrapposizione di opinioni, sembra aver generato paura e ossequio nei loro superiori, professori e amministratori, che si sono dimostrati molto riluttanti a disciplinarli in qualsiasi modo. Allo stesso tempo, una schiera di opinionisti dei media e di politici ha fatto il tifo per questi angeli della distruzione, chiamandoli eroi un attimo prima di seppellirli e di voltare le spalle alle loro famiglie colpite dal dolore. Si dice che i soldati caduti siano morti per una buona causa. Ma nessuno si prende il tempo di spiegare quale sia questa causa, al di là della pura sopravvivenza attraverso una violenza sempre maggiore.
Così, mi sono anche dispiaciuto per questi studenti, che erano così inconsapevoli di come erano stati manipolati. Ma ho lasciato quell’incontro pieno di trepidazione e di timore.
Mentre tornavo negli Stati Uniti alla fine di giugno, ho riflettuto sulle esperienze vissute in quelle due settimane disordinate e preoccupanti. Ero consapevole del mio profondo legame con il paese che avevo lasciato. Non si tratta solo del rapporto con la mia famiglia e i miei amici israeliani, ma anche del particolare tenore della cultura e della società israeliana, caratterizzata dalla mancanza di distanza o di deferenza. Questo aspetto può essere commovente e rivelatore; ci si può ritrovare quasi istantaneamente in conversazioni intense, persino intime, con altre persone per strada, in un caffè, in un bar.
Ma questo stesso aspetto della vita israeliana può anche essere infinitamente frustrante, perché c’è così poco rispetto per le buone maniere sociali. C’è quasi un culto della sincerità, l’obbligo di dire quello che si pensa, indipendentemente dall’interlocutore o dall’offesa che si può arrecare. Questa aspettativa condivisa crea sia un senso di solidarietà che di linee che non possono essere oltrepassate. Quando siete con noi, siamo tutti una famiglia. Se ti metti contro di noi o sei dall’altra parte del divario nazionale, sei escluso e puoi aspettarti che ti diamo la caccia.
Questo può essere anche il motivo per cui questa volta, per la prima volta, ho avuto timore di andare in Israele e perché una parte di me era felice di partire. Il paese era cambiato in modi visibili e sottili, modi che avrebbero potuto sollevare una barriera tra me, come osservatore dall’esterno, e coloro che ne sono rimasti parte organica.
Ma un’altra parte della mia apprensione aveva a che fare con il fatto che la mia visione di ciò che stava accadendo a Gaza era cambiata. Il 10 novembre 2023 ho scritto sul New York Times:
Come storico del genocidio, credo che non ci sia alcuna prova che a Gaza sia in corso un genocidio, anche se è molto probabile che si stiano verificando crimini di guerra e persino crimini contro l’umanità. […] Sappiamo dalla storia che è fondamentale avvertire del potenziale genocidio prima che si verifichi, piuttosto che condannarlo tardivamente dopo che è avvenuto. Penso che abbiamo ancora questo tempo.
Non ci credo più. Quando mi sono recato in Israele, mi ero convinto che, almeno dall’attacco dell’IDF a Rafah del 6 maggio 2024, non era più possibile negare che Israele fosse impegnato in crimini di guerra sistematici, crimini contro l’umanità e azioni genocide. Non solo questo attacco contro l’ultima concentrazione di gazesi – la maggior parte dei quali già sfollati più volte dall’IDF, che ora li ha spinti ancora una volta in una cosiddetta “zona sicura” – ha dimostrato un totale disprezzo di qualsiasi standard umanitario. Inoltre, indicava chiaramente che l’obiettivo finale di tutta questa impresa, fin dall’inizio, era quello di rendere inabitabile l’intera Striscia di Gaza e di debilitare la sua popolazione a tal punto che si sarebbe estinta o avrebbe cercato tutte le opzioni possibili per fuggire dal territorio. In altre parole, la retorica pronunciata dai leader israeliani a partire dal 7 ottobre si stava ora traducendo in realtà – vale a dire, come recita la Convenzione sul genocidio delle Nazioni Unite del 1948, che Israele stava agendo “con l’intento di distruggere, in tutto o in parte”, la popolazione palestinese di Gaza, “in quanto tale, uccidendo, causando gravi danni o infliggendo condizioni di vita volte a portare alla distruzione del gruppo”.
Si tratta di questioni che ho potuto discutere solo con un ristretto numero di attivisti, studiosi, esperti di diritto internazionale e, non a caso, cittadini palestinesi di Israele. Al di là di questa cerchia ristretta, tali dichiarazioni sull’illegalità delle azioni israeliane a Gaza sono anatema in Israele. Nemmeno la stragrande maggioranza dei manifestanti contro il governo, quelli che chiedono un cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi, le ammettono.
Da quando sono tornato dalla mia visita, ho cercato di collocare le mie esperienze in un contesto più ampio. La realtà sul campo è così devastante e il futuro appare così cupo, che mi sono permesso di indulgere in una storia controfattuale e di intrattenere alcune speculazioni di speranza su un futuro diverso. Mi chiedo: cosa sarebbe successo se il neonato stato di Israele avesse rispettato l’impegno di promulgare una costituzione basata sulla sua Dichiarazione di Indipendenza? Quella stessa dichiarazione che affermava che Israele
sarà basato sulla libertà, sulla giustizia e sulla pace, come previsto dai profeti di Israele; assicurerà la completa uguaglianza dei diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti, indipendentemente dalla religione, dalla razza o dal sesso; garantirà la libertà di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura; salvaguarderà i Luoghi Santi di tutte le religioni e sarà fedele ai principi della Carta delle Nazioni Unite.
Che effetto avrebbe avuto una simile costituzione sulla natura dello stato? Come avrebbe attenuato la trasformazione del sionismo da un’ideologia che cercava di liberare gli ebrei dal degrado dell’esilio e della discriminazione e di porli su un piano di parità con le altre nazioni del mondo, a un’ideologia statale di etnonazionalismo, oppressione degli altri, espansionismo e apartheid? Durante i pochi anni di speranza del processo di pace di Oslo, in Israele si è cominciato a parlare di “stato di tutti i cittadini”, ebrei e palestinesi.
L’assassinio del primo ministro Rabin nel 1995 ha messo fine a questo sogno. Sarà mai possibile per Israele abbandonare gli aspetti violenti, escludenti, militanti e sempre più razzisti della sua visione, così come è abbracciata ora da tanti suoi cittadini ebrei? Sarà mai in grado di reimmaginarsi come i suoi fondatori l’avevano così eloquentemente immaginato: come una nazione basata sulla libertà, sulla giustizia e sulla pace?
Al momento è difficile abbandonarsi a queste fantasie. Ma forse proprio a causa del nadir in cui si trovano ora gli israeliani, e ancor più i palestinesi, e della traiettoria di distruzione regionale che i loro leader hanno imboccato, prego che si levino finalmente voci alternative. Perché, come dice il poeta Eldan, “c’è un tempo in cui le tenebre ruggiscono, ma c’è l’alba e la luce”.
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