Sono in corso dalla mattinata di domenica grandi manifestazioni nella capitale Khartoum, per chiedere le dimissioni del generale golpista Burhan.
Centinaia di migliaia di persone si sono riversate nelle piazze per manifestare contro la giunta militare golpista al potere, mentre le autorità hanno interrotto la rete telefonica e i collegamenti a internet. Si chiede anche un processo agli assassini dei 7 manifestanti uccisi giovedì scorso, quando nonostante la capitale fosse stata blindata con blocchi stradali e container utilizzati per chiudere i ponti sul Nilo, in migliaia sono riusciti ad arrivare a ridosso del Palazzo presidenziale. La risposta delle forze armate che presidiavano i punti strategici di Khartoum e delle zone limitrofe con autoblindo e armi pesanti è stata di una brutalità mai vista.
Poche ore fa la notizia di altri quattro manifestati uccisi dalle forze di sicurezza durante le proteste nella sola capitale Khartoum.
La situazione politica è bloccata e non ci sono orizzonti di un accordo tra le componenti politiche e i militari per la gestione della fase transitoria.
Si sono diffuse ieri voci sulla messa agli arresti domiciliari per la seconda volta del primo ministro Hamdouk, ma il suo ufficio ha smentito via social. In occasione della giornata dell’indipendenza, il premier non ha trasmesso pubblicamente un suo messaggio e questo “impedimento” è stato interpretato da più parti come un’azione coercitiva dei generali golpisti che tengono di fatto le redini del potere nelle loro mani.
Il generale Burhan ha chiesto la formazione di un governo tecnico e ha assicurato che l’unica strada per il governo civile è quella del voto nel 2023, sottintendendo che fino a quella data i militari non molleranno il potere.
Il primo ministro sudanese Abdallah Hamdok, che guida il fronte civile della transizione nel Paese, ha annunciato poche ore fa alla televisione di Stato le sue dimissioni, due mesi dopo il colpo di Stato seguito da una repressione che ha provocato finora almeno 60 morti.
“Ho fatto del mio meglio per tentare di impedire al Paese di precipitare verso il disastro”, ha detto Hamdok nel discorso alla nazione trasmesso in tv, “alla luce della frammentazione delle forze politiche e i conflitti tre le componenti (civile e militare) della transizione… nonostante tutto ciò che è stato fatto per raggiungere un consenso… non è accaduto”. Il Sudan, ha aggiunto, “è ad una svolta pericolosa, che mette a rischio la sua stessa sopravvivenza”.
Il nuovo bagno di sangue e l’uso dell’artiglieria pesante da parte dell’esercito in alcune località hanno spinto il primo ministro del Sudan, Abdalla Hamdok, a rendere ufficiali le dimissioni “congelate” da una settimana, definendole irrevocabili. Si apre così forse lo scenario di elezioni anticipate.
Di fronte all’ennesima repressione dei militari contro i dimostranti – solo ieri, domenica, hanno ucciso quattro manifestanti nella capitale – il premier deposto con un golpe il 25 ottobre e poi reinsediato dagli stessi golpisti sotto pressione internazionale, ha alla fine deciso di rinunciare a formare il nuovo governo.
Il bilancio dei morti è destinato a salire, fa sapere il Sindacato dei medici pro-democrazia. “Nonostante le repressioni, non ci fermeremo – afferma Khalid Omer Yousef, ex ministro degli Affari del Gabinetto del Presidente del Consiglio – nuovi cortei sono già previsti per giovedì prossimo. La brutalità della strage di domenica non è descrivibile a parole. L’unica risposta possibile è portare avanti un’azione unitaria tra le forze anti-golpe fino alla completa sconfitta dei militari. Non è più tempo di divergenze secondarie. È tempo di guardare al nemico comune che non rispetta il sangue dei manifestanti e non disdegna la perdita di vite umane”.